Google cambia natura. E ricominciano i guai

Vignetta satirica sul tema di Google che da motore di ricerca sta passando a macchina delle risposte con l'Ai

Seppure in un contesto dominato da social e produttori di informazione spesso improvvisati, la editoria tradizionale di quotidiani e periodici sembrava poter difendere uno spazio di ricavi, quindi tenuta economica e/o sopravvivenza, tramite gli accordi con Google, il motore di ricerca per eccellenza che è anche il sito più visitato al mondo dove avviene il grosso della ricerca di notizie. L’accordo-quadro negoziato da G sei anni fa con le Associazioni editori e i principali gruppi editoriali del mondo garantisce un contributo annuo in denaro. Ma è soprattutto attraverso i riassunti delle notizie che la piattaforma stimola chi vuole saperne di più a cliccare sui siti degli editori per un approfondimento monetizzabile tramite abbonamenti e raccolta diretta o indiretta di pubblicità. Dalla prima pagina di Google, e tramite l’acquisto di parole-chiave, gli editori possono crescere (vedi i casi di successo New York Times e soprattutto The Guardian britannico), o almeno sopravvivere proponendo agli investitori pubblicitari quote di lettori e potenziali abbonati in arrivo dalla rete.

GOOGLE DA MOTORE DI RICERCA A MACCHINA DELLE RISPOSTE

Sembrava l’uovo di Colombo… ma pare che non sia già più così. Questo traffico sta calando, addirittura crollando, secondo un articolo del Wall Street Journal di giugno negli ultimi tre anni il traffico da Google verso i principali editori americani è sceso del 50%. Testate di prima grandezza come New York Times, Washington Post, The Atlantic hanno visto calare dal 44% al 36% la quota di traffico da ricerca organica, e per altri il calo è addirittura maggiore (dal 60% al 33%). Qualcuno, come Business Insider dopo un calo del 55% ha licenziato il 21% dei collaboratori. Un bel problema dovuto al cambio di natura di Google che da motore di ricerca (search engine) si sta trasformando in macchina delle risposte (answer machine). Cioè non si limita a riassumere brevemente le news ma fornisce approfondimenti articolati e in genere completi.   

A cambiare aveva già cominciato nel 2018 con gli snippets, box esposti in testa alla pagina che forniscono i link ma anche l’estratto delle cose più rilevanti di una pagina web; magari poche righe che però in caso di informazioni brevi (risultati sportivi, testi di canzoni, date di avvenimenti storici) bastano a soddisfare le richieste degli utenti senza spingerli a richiamare i link riportati. Dal 2024 si è aggiunto Ai Overview il suo strumento proprietario di Intelligenza artificiale conversazionale che risponde direttamente agli utenti e rende superfluo cliccare sui siti web originali da cui Google Search trae le sue risposte.                                                                                                                                                             

Per G è una scelta inevitabile perché, oltre a essere un leader nel campo della Ai, è a sua volta incalzato da soggetti che usano la intelligenza artificiale generativa (tre magiche paroline che inflazionano tutta la comunicazione e perfino gli spot di pubblicità televisiva). Come Chat Gpt, ormai al quinto posto fra i siti più consultati al mondo. Con l’integrazione di Ai Overviews però aumentano le ricerche in cui Google non è più solo punto di partenza ma l’unico sito dove trovare tutte le risposte. E così cambia anche la funzione di sostegno al resto del web che il motore di ricerca ha avuto finora. A marzo 2025 PewResearch analizzando il comportamento di un campione di 900 utenti Google che ha fatto almeno una ricerca in quel mese ha visto che nel 58% dei casi il risultato era un riassunto di Ai Overview, e “dopo aver visitato una pagina in cui è presente un riassunto generato dall’Intelligenza artificiale gli utenti di Google tendono a chiudere la navigazione”. Nel 26% dei casi gli utenti sono meno propensi a cliccare sui link che Google comunque continua a mostrare e a cui si rivolge solo il 16%.                                                                                                                                         

Così l’intero comparto editoriale negli Stati Uniti ha visto crollare i ricavi da attività online provenienti dal motore di ricerca. In Europa e in Italia il fenomeno pur già presente non ha raggiunto dimensioni critiche perché l’Unione Europea impone ancora certi vincoli, ma è del tutto evidente che sarà impossibile frenarlo. Non a caso tra maggio 2024 e maggio 2025 Google ha perso solo il 2% delle visite, mentre agli altri motori di ricerca va molto peggio: Bing ha perso il 18%, Yahoo l’11% e Baidu il 12% (dati Search Engine Journal).  E poiché per ricerche veloci e su pochi siti si usa sempre più lo smartphone il fenomeno è destinato crescere ulteriormente, al punto che Ai Overviews potrebbe dimezzare il traffico storicamente indirizzato da Google verso il resto del web. Secondo il Wsj le ricerche su Google generano circa il 40% di tutto il traffico ricevuto dai siti web più importanti. Il che solleva alcune domande: in primis che ripercussioni avrà tutto ciò sul mercato del web “aperto” quello appunto che riceve una quota consistente di traffico e risorse (introiti pubblicitari) proprio da Google?  Spostare le ricerche verso sistemi di intelligenza artificiale generativa potrebbe provocare ai gruppi editoriali “una perdita attorno al 20-40% del traffico indotto”.  

I RISCHI PER L’INFORMAZIONE

Poi c’è da chiedersi quali rischi corrono gli utenti, per esempio dal punto di vista della “oggettività” delle informazioni. Il rischio principale è rappresentato ovviamente dalle allucinazioni, errori di computo ma spesso vere e proprie bugie, quando cioè un large language model che sta alla base della Ai presenta come fatti informazioni errate o completamente inventate. In un recente intervento (https://iamarf.org/2025/08/11/non-cadere-nella-trappola-degli-annunci-gpt-5) al Laboratorio aperto di Cittadinanza attiva Andreas Formiconi, già professore associato di Informatica alla Università di Firenze, spiega come la narrativa dominante sia “drogata dall’appetibilità giornalistica dell’argomento, essendo il motore dei large language models solo statistico e sempre orientato verso il probabile, mentre la conoscenza umana cresce soprattutto grazie alla induzione, cioè alla ricerca dell’improbabile”. E aggiunge che “dentro la Ai non c’èniente di intelligente, solo sofisticata statistica, meravigliose architetture informatiche ma nessun pensiero”. Certo, una statistica che “funziona in contesti precisi, con vincoli precisi e molta attenzione umana, e impiego di tempo, e per questo non deve essere applicatadove l’errore non è concesso, come nella diagnostica medica, ove non può sostituirsi al medico, ma fornirgli un eccellente strumento critico di consultazione per formulare la diagnosi.                                                                                                                                                                      

Insomma in linea di massima ogni contenuto generato dall’Intelligenza artificiale andrebbe controllato per verificarne la veridicità. Ma quanti utenti lo fanno realmente? Una risposta ce la fornisce ancora Pew secondo cui solo l’1% degli utenti clicca sui link che accompagnano i riassunti di Ai Overviews, mentre solo l’8% apre i link classici mostrati nel resto della pagina di Google. In pratica solo il 9% degli utenti sembra interessato a verificare la correttezza dell’informazione riportata.                                                                                    

Perfino più ricco di implicazioni socio-culturali è il fatto che le risposte costruite dall’Intelligenza artificiale offrono una visione univoca, mentre la classica ricerca su Google fornisce risultati differenziati tra cui scegliere le fonti più affidabili o vicine alla nostra sensibilità. È una differenza importante soprattutto quando le ricerche riguardano argomenti controversi tipo crisi ambientale, vaccini, guerre o altre questioni geopolitiche, o magari collaborazioni riservate fra Google e le forze armate Usa (o israeliane).                      

In un mondo perennemente in difficoltà economiche come quello editoriale-giornalistico, la trasformazione di Google in macchina delle risposte e il conseguente calo delle visite, potrebbe quindi rappresentare un durissimo colpo e rivelarsi un disastro alla faccia di certe ottimistiche dichiarazioni sulla Ai di nuovo conio come Gpt-5, l’ applicazione di Ai capace di ragionare scomponendo i problemi in passaggi logici e che quindi starebbe “diventando umana”, almeno secondo Sam Altman fondatore di OpenAi.                                                                                                                           

Tuttavia oltre al rispetto degli accordi economici che molte importanti realtà hanno già stretto con Google, OpenAi e non solo, trovare un accordo è nell’interesse di tutti. Ma senza troppe illusioni come fanno invece molti editori convinti di essere al sicuro perché se le testate giornalistiche smettessero di fare informazione a causa della diffusione dei sistemi come Overviews i colossi dell’Intelligenza artificiale non saprebbero più come addestrare i loro large language model con notizie e servizi aggiornati.                                                                                                                                           C’è invece un forte rischio che trionfi il pressapochismo, l’espansione senza limiti delle fake news, la scomparsa della “oggettività” della notizia e del ruolo di chi la cerca, la studia e la confeziona (giornalisti e editori), il trionfo di una informazione a propria immagine e somiglianza.                                                          

Per capirci, quanti americani saranno in grado di riprendersi dopo quattro di anni di presidenza del sociopatico troll-in-capo Trump che le notizie se le confeziona da solo sul suo canale Truth da cui poi inquina l’universo dei media?