Guerra e pace
Gaza, Ucraina e l’abisso dell’umanità

Deve essere successo qualcosa alla guerra. Finora a piangere erano quelli che vi erano direttamente coinvolti, o per i bombardamenti, o per la fame, o per i morti, per la perdita di figli o di altre persone care. Oggi, per aver diffuso un testo su Gaza, qualcuno mi ha scritto di aver pianto, altri mi hanno detto di somatizzare il dolore per la strage, al vedere i bambini con gli arti amputati e il latte in polvere bloccato alla frontiera, un altro ha risposto “resistiamo insieme”, trentasei parrocchie di Firenze si sono dette partecipi, e molti altri che nella guerra non sono personalmente coinvolti, che ne sono fisicamente molto lontani.
Io avevo scritto, paradossalmente: “Magari fosse un genocidio”. Un genocidio, nel perseguire l’intenzione di distruggere un gruppo umano come tale, può anche limitarsi a colpire alcuni membri o una parte del gruppo, e forse potrebbe anche fermarsi a centomila morti; inoltre il gruppo che si vuole distruggere è pur sempre un gruppo umano, che però non si vuole continui a far parte della comune umanità.
Qui invece siamo a una destituzione dall’umano. Ha detto alla stampa, così che tutti lo sapessero, l’ex ministro della Guerra di Netanyahu: combattiamo contro animali umani. Ha detto alla stampa, così che tutti lo sappiano, l’attuale ministro della Guerra di Netanyahu: mettiamo 600.000 palestinesi sfollati ad Al Mawasi in un serraglio chiamato “città umanitaria” da costruire sulle rovine di Rafah, e concentriamo poi l’intera popolazione palestinese nel sud della Striscia di Gaza, da dove non potrà uscire.
L’amena bellezza del mare di Gaza ha ispirato ai padroni del futuro l’idea di una ridente Riviera del Mediterraneo. A quanti sono informati sul presente essa fa venire in mente piuttosto la tonnara, quella “camera della morte” in cui i tonni vengono spinti e ammassati dai tonnaroli, che all’ordine del Rais li arpionano e ne compiono la mattanza.
Questo progetto che comporta il concorso strutturato e complice di più protagonisti, viene chiamato pace, e il suo esecutore che dalla tribuna dell’Onu già aveva dispensato benedizioni e maledizioni, oggi vuole attribuire al suo più alto Patrono il premio Nobel per la pace, essendo appunto la pace il nuovo nome dell’annientamento.
Fin qui le notizie, le news. Ma oltre l’obiettività dell’informazione, c’è il messaggio che ne proviene. Ed è che qui non è più questione dei palestinesi, degli israeliani, dei russi o degli ucraini, dell’Iran o dell’America; qui siamo alla perdita dell’ultima dignità dell’umano, a quella soglia oltre la quale l’umano non è più umano. È questa la prova estrema di fronte a cui si trovano oggi il glorioso Occidente, le cosiddette autocrazie, i Paesi arabi, l’Europa che riarma. Ma nessuno corre a presidiare questa soglia, forse nessuno di questi lo può fare.
Allora dovrebbe essere l’umanità stessa in qualche sua apicale espressione a farlo, qualcuno che vada lì non per sé, non per i suoi, non per i palestinesi, non per gli ebrei, ma per questa umanità che si spegne, che ancora ne faccia echeggiare la voce.
Potrebbe essere il segretario generale delle Nazioni “Unite”, se il loro Patto non fosse stato passato al tritacarte in piena Assemblea generale a New York. Potrebbe allora forse essere un papa, ma non come voce di parte in nome della sua Chiesa, perché nessuno se ne adonti; dopo papa Francesco il popolo di Dio che fino ad allora era stato ristretto a una Chiesa, è stato identificato con l’umanità tutta intera.
A questo titolo il papa potrebbe raggiungere Rafah, affacciarsi su quella soglia dell’ignoto, e tutti potremmo seguirlo. Sarebbe la sua Lampedusa o la sua Lesbo, la sua lavanda dei piedi ai circoncisi e agli incirconcisi, la sua “Fratres omnes”, e perché no, dato che si chiama Leone, potrebbe essere la sua Mantova.
Questo avevo scritto. Ma qualcosa di nuovo si potrebbe dire anche per l’Ucraina, perché ambedue le guerre sono ormai affacciate sull’abisso, e nemmeno questa è avara di lacrime. Putin, con tutte le sue ragioni, dovrebbe unilateralmente stabilire una tregua. Dovrebbe dire: ecco, io fermo le ostilità, così l’Ucraina può fare le elezioni, che ora dice di non poter fare, e mettere al posto di Zelensky, che con il suo zelo ha fatto milioni di morti, altre “persone per bene”, come diceva Berlusconi, che accettino il negoziato: perché “è più forte chi pensa al popolo, chi ha il coraggio della bandiera bianca”, come diceva papa Francesco, e “quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare. Hai vergogna, ma con quante morti finirà?”
Tanto più questo è necessario oggi perché Trump ha cambiato umore, e mentre prima diceva che quella guerra è “stupida”, ora è lui che la vuol fare dando armi alla Nato, e quando c’è uno che non si può controllare, bisogna stare attenti a non provocarne la follia. E Putin potrebbe dire: basta che mettiate per iscritto ciò che ho sempre chiesto, che la Nato non si installi in Ucraina, e che questa non sia tenuta in guerra “per sempre” con le armi degli amici, da Macron a Mattarella, come un pugile suonato che sul ring sia tenuto in piedi a forza dai suoi secondi per finire di essere distrutto. E quanto alle terre russofone “dove i soldati russi hanno messo il piede”, la pace si può fare se col voto decidono con chi stare, secondo il principio dell’autodeterminazione dei popoli, cioè secondo il diritto internazionale, non meno che secondo il diritto umanitario.
Quelli che così potrebbero decidere certo non sono gran che di lungimiranza, ma in terra di ciechi beati i monocoli.