Faber

Sono stato di recente a un bel concerto della Pfm (la mitica Premiata Forneria Marconi) in cui si cantava De Andrè. Un bel ricordo del Concerto perduto di cui trattano Ambrogio Lo Giudice e Walter Veltroni nell’omonimo docufilm del 2023. Pensavo di trovare un pubblico molto stagionato, di gente come me che da qualche decennio ha superato i 40. E invece… sorpresa! Anche tante ragazze e tanti ragazzi anche molto più piccoli di mia figlia più piccola con cui mi sono recato all’evento. Certo è la sorte dei classici che, in ogni campo, superano il loro tempo e riescono a rimanere contemporanei dei sentimenti più profondi che agitano donne e uomini di ogni età. La parola, il canto, quando sono autentici e profondi, svelano non solo il mondo com’è ma come potrebbe e dovrebbe essere. Mancava un po’ la Voce, quando è iniziato il concerto con la travolgente e vitalistica forza musicale della Pfm è stata la prima cosa di cui ci siamo accorti, quella profondità insostituibile che colorava di un colore irriproducibile i brani più riprodotti della storia moderna della canzone italiana. La voce di Fabrizio De Andrè, il suo timbro restano nell’orecchio di chi tante volte lo ha ascoltato nelle gioie o nelle tristezze che cuciono l’ordito delle nostre vite e che nei percorsi delle sue parole ha riconosciuto frammenti di sé, come avviene solo quando l’arte è autentica, quando canta, scrive, dipinge i sentieri della vita dove si rifrangono speranze o disillusioni come le onde del mare sulla battigia. Noi di Rocca in questi ultimi due anni abbiamo molto incrociato e proposto ai nostri lettori alcuni uomini della parola, che la parola hanno posto al centro del proprio lavoro, della propria passione, della propria stessa esistenza. Pier Paolo Pasolini, Lorenzo Milani, Davide Turoldo. Mi sentirei di dire che Fabrizio De Andrè è uomo di questa stessa pasta. «La chiave fatata che apre ogni porta», come don Lorenzo definiva la parola è la stessa che ha consentito a De Andrè di raccontare la storia di donne e uomini, soprattutto di quelli invisibili, quelli dei «quartieri dove il sole del buon Dio non da i suoi raggi…», quelli di Via del campo, dove intuisce con un rovesciamento di ogni apparenza, mi permetto di dire quasi evangelico, che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior. La centralità della parola ce la dice bene la lingua che ne ha veicolato la potenza. In ebraico parola si dice dabar che è insieme potenza e atto, designazione e produzione, dire e fare, evocazione ed evento. La parola e, in modo forte quella cantata, produce emozioni, cioè muove, commuove, scava sotto la pelle e mette in circolo sentimenti che costituiscono i veicoli del nostro rapporto con noi stessi e con gli altri. Questo è stato e continua ad essere Faber per molti. Nella sua poetica si intrecciano una serie di motivi che ci parlano di oggi, pur a venticinque anni dalla sua morte. Le esistenze periferiche, gli scarti, le consuete miserie umane e le ipocrisie piccolo borghesi del vecchio professore, la meschinità di molti uomini di potere o il mito degli eroi che infine discutono sull’aumento di certe tariffe, la bellezza degli amori autentici e di quelli perduti quando le rose appassiscono, la nostalgia di un Dio del cielo che vorresti ti venisse a cercare tra il granturco, in mezzo ai giochi e ai drammi di questa terra, la scoperta del Gesù rivoluzionario e rivoluzionante, come quello predicato con la vita da don Gallo, così presente lungo tutto il suo percorso artistico e non solo in quel capolavoro che è la «Buona novella » in cui emerge come da un’ombra la tenera, tragica, umanissima figura di Maria: dall’infanzia, dove cucito qualche giglio sul vestito alla buona forse per bisogno o peggio per buon esempio presero i tuoi tre anni e li portarono al tempio, al sogno, alla stagione che illumina il viso, alla bottega del falegname, fino al Golgota dove le farà dire: come nel grembo e adesso in croce, ti chiama amore questa mia voce. A proposito della «Buona novella» mi è molto piaciuta una considerazione di una importante teologa come Marinella Perroni che parlando di quest’opera e di come essa è stata messa in scena in uno spettacolo di Neri Marcorè parla di una interpretazione delle Scritture canoniche ed apocrife liberata da schemi interpretativi incomprensibili e da lacci e lacciuoli moralistici che oggi offendono anche solo il buon senso.

C’è una frase di Pier Paolo Pasolini che certamente De Andrè avrà condiviso. La divinità di Gesù sta nella sua straordinaria umanità dice l’intellettuale friulano. E in fondo il cantautore genovese non intende cantare la gloria né invocare la grazia e il perdono di chi pensa non sia altri che un uomo come canta in «Si chiamava Gesù». E come ci interroga quel finale tra l’ironico e l’amaro: non si può dire che sia servito a molto perché il male dalla terra non fu tolto. Ebbe forse un po’ troppe virtù, ebbe un volto ed un nome Gesù.

Eppure questo Gesù con la sua contagiosa carica di umanità entra in tante pagine della discografia deandreiana. Come non vederlo, quasi eucaristicamente, nel Pescatore che versò il vino e spezzò il pane per chi diceva ho sete e ho fame, o in quel gioiello che, secondo me è «Preghiera in gennaio», dove il Dio di misericordia il suo bel paradiso lo ha fatto soprattutto per chi non ha sorriso. Quasi il bisogno di una giustizia e di una restituzione che medichi le ferite degli sventurati di ogni tempo e che invita, qui ed ora, a vederli e a prendersene cura.

Fabrizio De Andrè indica ancora oggi una direzione contraria a cui ostinatamente orientarsi. Quella di immaginare una società di donne e uomini solidali, che rispetti le diversità, che non porti a quell’approdo conformistico, consumistico, omologante che a loro modo sia don Milani che Pasolini avevano visto, previsto e combattuto. Ricorda Signore questi servi disobbedienti di cui De Andrè canta nella sua «Smisurata preghiera». Di quelli che spendono la vita, la parola, le opere per compiere passi verso quel processo di umanizzazione che è sempre fragile, incerto, esposto ai ritorni degli dei e degli idoli violenti e capricciosi. Di cosa ci parla, infatti, questo plumbeo periodo che moltiplica guerra, estende l’economia mortifera del riarmo generalizzato, spinge verso l’erosione dei diritti civili e sociali, erode anche le conquiste democratiche più che condurle verso quel confine ugualitario e libertario caro a De Andrè?

«Non è facendo canzoni contro i conflitti bellici che si eviteranno le guerre. Tuttavia esse entrano a far parte del patrimonio culturale di un popolo, sono parte della coscienza. Dunque possono essere un buon deterrente. È questa la loro importanza». Così dice il cantautore ligure con quel caratteristico misto di realismo e di ostinazione della speranza. Ogni guerra, lo vediamo oggi, è quella di Piero e i mille papaveri rossi ci dicono ancora il contrasto tra la tragedia di una morte insensata e la bellezza di una «creazione» che sembra attendere delusa e tuttavia impaziente «la manifestazione dei figli di Dio» (Rm 8,19). Forse è l’intreccio di questi temi esistenziali e sociali che tessono la trama musicale e poetica di Fabrizio De Andrè che ha portato ancora tanti, soprattutto tanti giovani che quando lui è morto non erano ancora nati ad ascoltare un concerto bello, con radici ormai lontane che ci parlano di futuro.