Chiesa e teologia
Etica della cura, emozioni e vita pubblica

In questi tempi così incerti, se ponessimo una domanda a bruciapelo – le emozioni hanno valore politico? – il piccolo Kant che abita ciascuno di noi salirebbe sulla sua cattedra di legno secolare per far sentire forte il suo dissenso. Ci portiamo dentro una cultura morale, ricevuta in eredità, abituata ad inserire ogni situazione ed ogni persona in contenitori universali e razionali, attraverso i quali catalogare e dare un giudizio di valore oggettivo. Le emozioni in tutto ciò non avrebbero voce alcuna. Anche la teologia morale e l’etica cattoliche non hanno potuto sottrarsi a queste categorie per lungo tempo.
Tuttavia l’esperienza quotidiana ci immerge in una realtà ben più complessa e differenziata rispetto ai “contenitori” preconfezionati. Proprio qui le emozioni, sì, hanno un valore politico. Fondamentale peraltro. Considerate per secoli la parte debole dell’essere sociale, tratto vulnerabile della persona da tenere sotto controllo, le emozioni rivestono, invece, un ruolo determinante nella costruzione di comunità umane solidali e generative. Non l’autonomia e l’indipendenza caratterizzano davvero l’uomo/donna maturi, liberi, ma piuttosto la necessaria dipendenza dagli altri, dalla loro cura, in ogni età della vita. Non c’è alcuno che possa fare a meno della propria dimensione relazionale necessariamente legata all’esistenza dell’altro.
«Un progetto di vita che assume come riferimento l’ontologia relazionale concepisce il processo del divenire il proprio essere nei termini del coltivare i legami relazionali in modo che si strutturi un campo di relazioni dove tutti coloro che sono in esse immersi possano trovare il migliore nutrimento possibile per l’esserci: cognitivo, affettivo, spirituale.» (Luigina Mortari, Sull’etica della cura, Vita e Pensiero).
Qui intervengono con forza emozioni sociali e politiche quali, appunto, la cura, l’attenzione, l’empatia, la responsività, la sensibilità, l’amore, le quali ci rendono capaci di leggere e comprendere la specificità dei bisogni nelle singole situazioni. In tal modo l’etica, rispondendo ad una logica situazionale, può ponderare di volta in volta il meglio per i soggetti.
Il valore politico delle emozioni, dunque, consiste anche nel loro fine pratico: non fare in modo che tutti rientrino nei contenitori morali prestabiliti, bensì fare in modo che “tutti possano trovare il miglior nutrimento possibile per l’esserci: cognitivo, affettivo, spirituale”. Tutti e tutte.
L’esempio di questo modo di agire non è difficile da trovare per i cristiani. Non faceva forse così Gesù di Nazaret? In mezzo alle persone del suo tempo, provando compassione, osservando i bisogni, offrendo cibo, donando parole, ascoltando, sentendo in sé stesso il sentire degli altri. Anche sconfinando, quando era necessario sconfinare per raggiungere i più “estranei”.
In questo tempo così intriso di autoreferenzialità, in cui sembra smarrito l’orizzonte dell’interdipendenza tra le persone, tra le comunità, tra le nazioni, il cristianesimo ha ancora una parola necessaria da dire per rispondere al grido che si leva dal cuore della società. Una prospettiva così radicalmente cristiana come l’etica della cura sembra davvero tutto ciò che il mondo attuale implora da noi.