economia e lavoro
Dsuguaglianze: ecco cosa frena l’Italia

L’Italia è sempre più un Paese spaccato, non soltanto lungo le linee geografiche che separano il Nord e il Sud, ma soprattutto in termini di ricchezza, reddito e opportunità. Negli ultimi quindici anni la forbice si è allargata, la società si è polarizzata, i patrimoni si sono concentrati in poche mani, mentre le condizioni di vita delle classi popolari sono peggiorate. La stagnazione economica che da oltre due decenni affligge il Paese non può essere compresa senza guardare al cuore di questa dinamica: disuguaglianza, povertà e polarizzazione dei redditi non sono soltanto effetti collaterali di un modello economico ingiusto, ma anche le cause stesse del suo declino. Lo aveva spiegato bene il premio Nobel Joseph Stiglitz per il caso americano, ma la lezione vale anche per l’Italia: quando la ricchezza si accumula nelle mani di pochi, l’economia si indebolisce. I ricchi, per definizione, hanno una bassa propensione al consumo; un euro in più nelle loro tasche non alimenta la domanda interna, si trasforma in risparmio o investimento finanziario. Al contrario, se quello stesso euro finisce nelle mani di chi ha poco, si trasforma in consumo immediato. John Maynard Keynes aveva colto questa verità con la nozione di “propensione marginale al consumo”: la quota di reddito destinata ai consumi diminuisce man mano che il reddito cresce. È per questo che le disuguaglianze, lungi dall’essere un fattore di efficienza, sono un freno strutturale allo sviluppo.
RICCHI SEMPRE PIÙ RICCHI, POVERI SEMPRE PIÙ POVERI
I dati parlano chiaro. Secondo l’ultimo rapporto di Oxfam (gennaio 2025), il 10% più ricco degli italiani detiene quasi il 60% della ricchezza nazionale, mentre alla metà più povera resta appena il 7,4%. Quattordici anni fa era l’8,3%: un arretramento netto. Il 5% delle famiglie più ricche possiede da solo il 47,7% della ricchezza complessiva. In testa alla piramide, 71 miliardari italiani concentrano patrimoni per 272,5 miliardi di euro, aumentati nel solo 2024 di oltre 61 miliardi, al ritmo di 166 milioni al giorno. E non si tratta soltanto di capacità imprenditoriale: secondo Oxfam, quasi i due terzi (63%) della ricchezza miliardaria italiana è ereditaria, a fronte di una media mondiale del 36%. Un capitalismo che più che premiare il merito, perpetua rendite e privilegi dinastici. Sul versante opposto, il quadro è drammatico. Oggi in Italia oltre 5,7 milioni di persone vivono in povertà assoluta, in circa 2,2 milioni di famiglie. La quota di popolazione a rischio povertà o esclusione sociale ha raggiunto il 23,1% nel 2024, con punte che al Sud toccano il 40%. Intanto, i salari reali hanno perso il 10,5% del loro potere d’acquisto tra il 2019 e il 2024, schiacciati dall’inflazione e da dinamiche contrattuali sfavorevoli. Non va meglio guardando al lungo periodo: l’Italia è l’unico Paese europeo in cui, dal 1990, le retribuzioni medie sono diminuite in termini reali. Così, mentre in alto si accumulano fortune ereditarie e profitti record nei settori energetico, farmaceutico e digitale, in basso cresce la platea dei working poor, di chi lavora ma non guadagna abbastanza per vivere dignitosamente. Un sistema che produce precarietà, erosione del welfare, marginalizzazione sociale. La promessa neoliberista della mobilità sociale è evaporata, insomma: chi nasce povero, con ogni probabilità, resterà povero; chi nasce ricco vede rafforzarsi il proprio status.
DISUGUAGLIANZE E POVERTÀ VANNO A BRACCETTO CON LA STAGNAZIONE
Questo squilibrio non è neutro per l’economia. Se ampie fasce della popolazione non hanno reddito sufficiente per alimentare i consumi, il mercato interno si contrae. Le imprese, a loro volta, non trovano sbocchi nella domanda nazionale e preferiscono accumulare liquidità o spostare capitali verso la rendita finanziaria. Si genera così un circolo vizioso: bassa domanda, bassi investimenti, bassa produttività. L’Italia è imprigionata da oltre vent’anni in questa spirale stagnante, con una crescita media annua prossima allo zero (anche per il 2025, secondo Istat, non si andrà oltre lo 0,6%) e un Pil pro capite che, rispetto al 2000, è rimasto sostanzialmente fermo.
La disuguaglianza, dunque, non solo mina la coesione sociale, alimentando sfiducia e conflitto, ma tarpa le ali all’economia, soffocando ogni possibilità di rilancio. E dall’Italia si scappa. Le cifre sull’emigrazione giovanile sono impietose: negli ultimi dieci anni quasi 100.000 laureati hanno lasciato il Paese, con un picco nel 2024. È il frutto di un sistema che non offre prospettive, che costringe le nuove generazioni a scegliere tra precarietà interna o fuga all’estero.
REDISTRIBUIRE LA RICCHEZZA PER UNA CRESCITA INCLUSIVA
Eppure, la politica sembra cieca di fronte a questa evidenza. Da anni i Governi italiani hanno scelto la strada della compressione salariale, della flessibilità estrema, dello smantellamento del welfare. Politiche che hanno ridotto i diritti senza rilanciare consumi o investimenti. Al contrario, hanno accentuato la dipendenza dell’economia dall’export, esponendola ancora di più agli shock esterni. L’unico discorso che ruota intorno al tema dei salari bassi è quello del taglio del cuneo fiscale. Come a dire: le paghe sono da fame? La colpa è dello Stato che con le tasse sul lavoro garantisce un minimo di welfare. Un mondo alla rovescia. Nel frattempo, i ricchi hanno continuato ad ingrassare, protetti anche da un sistema fiscale indulgente, che prevede una tassazione patrimoniale tra le più basse d’Europa. Parlare di “crescita inclusiva”, di “piani per la competitività” o di “modernizzazione del Paese” suona allora come una retorica vuota, se non si affronta il nodo centrale: redistribuire reddito e ricchezza. Senza una politica salariale che restituisca potere d’acquisto, senza un fisco realmente progressivo, senza investimenti pubblici nei servizi universali e nelle aree più fragili, non c’è possibilità di invertire la rotta. Anzi, la stessa transizione ecologica e digitale rischia di trasformarsi in un moltiplicatore di disuguaglianze, se non è accompagnata da robuste misure di giustizia sociale. Il punto è che il capitalismo italiano, dominato da rendite e da una classe dirigente miope, non sembra in grado di compiere questa svolta. Preferisce difendere i privilegi di pochi piuttosto che allargare la base sociale della crescita.