Dopo 3000 anni

Guernica reproduction on tiled wall, Guernica, Spain (PPL3-Altered)

Il compito non è facile. Dagli albori della civiltà, da che ne sappiamo qualcosa, abbiamo la guerra con noi. Sta nella storia, sta nella cultura e sta nel diritto, a tutti sembra la cosa più normale del mondo. Nel VI secolo avanti Cristo un longevo frammento di Eraclito, giunto fino a noi, ne definiva il ruolo come del “padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni manifesta come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi, gli altri liberi», la guerra cioè assegna il suo posto a ciascuno, dà il suo nome alle cose, è la chiave di tutto. Secondo la Bibbia anche Dio, già molti secoli prima, la pensava così. Nel racconto del confronto con Mosè sul Sinai il Signore si riconcilia col popolo ebreo che si era fatto il vitello d’oro, rinnovandogli la promessa della terra da strappare con la guerra all’Amorreo, al Cananeo, all’Ittita, al Perizzita, all’Eveo, al Gebuseo, gli vieta di fare alleanza con loro, gli ordina di distruggere i loro altari, di  fare a pezzi le loro stele, di non prendere per mogli dei suoi figli le loro figlie, di non contaminarsi con gli dèi nemici; per gli Ebrei è un comando vitale: ne va dell’elezione. Poi Giosuè prosegue la conquista, distrugge Gerico e Ai, fino al genocidio. Netanyahu fa lo stesso, forse senza saperlo nemmeno.

 Naturalmente le cose non andarono per niente così. Dio non è così. Secondo gli storici l’ingresso delle tribù israelite nella terra di Canaan non avvenne affatto con la guerra, ma in modo graduale e pacifico: certe città o popoli non esistevano nemmeno; la Bibbia non si legge in questo modo, altrimenti, come dice la Commissione Teologica vaticana, “è un suicidio del pensiero”. Però la guerra come istituzione non è messa in discussione da nessuno. O almeno fino all’altro ieri, fino alla bomba atomica, quando papa Giovanni la dichiarò “fuori della ragione”, e la Costituzione italiana l’aveva già ripudiata. In realtà non ci si è mai rinunziato, nessun motivo ne è stato mai escluso.

Ma allora se la guerra è questa suppellettile della storia, metterla fuori della storia è una impresa di straordinaria portata, la politica non ci prova nemmeno, il giornalismo rema al contrario. Questa è la vera difficoltà del pacifismo. Tanto meno le attuali classi dirigenti al potere sono in grado di uscire dalle guerre di oggi, l’Ucraina, il Sudan, il genocidio di Gaza, e non solo di Gaza, ammesso che lo vogliano. Trump e Kamala Harris non ne dibattono nemmeno, è strappare i voti che conta; giusto Trump si ricorda della guerra nucleare, nel dibattito televisivo la Harris neanche ne parla. Intanto non si fa che fare appello alla sconfitta altrui, si gettano sul terreno armi ed armi, dollari e dollari, come se fosse questione di mercato, non di sterminio, si pretende di “finire il lavoro”, e si corre ciecamente al suicidio.

Ma dopo 3000 anni non si può continuare così. Il cambiamento non può investire solo la politica, i governi; deve mettere in gioco il pensiero, la conoscenza, l’amore, le fedi. Se si potesse senz’armi, una rivoluzione.