Domande dai cantieri ecclesiali

La Chiesa è più di quel che sembra» non è solo il titolo della lunga intervista al cardinal Matteo Zuppi comparsa su uno degli ultimi numeri della «Civiltà Cattolica». È una forte e affettuosa ‘pacca sulle spalle’ ai preti, alle sorelle e ai laici che ci credono ancora, che danno l’anima per la causa del Vangelo, che non demordono dal loro impegno anche se la Chiesa italiana sta vivendo la sua stagione autunnale. Perché è l’Italia cattolica, ovviamente, che alimenta i pensieri e le preoccupazioni del Presidente della Cei. Sono i preti che, soprattutto nelle diocesi del Nord e del Centro, si interrogano sul senso del loro ministero, dovendo dividersi la domenica tra più messe e parrocchie, comunque poco frequentate. È un associazionismo che (salvo poche eccezioni) non ha più il radicamento del passato, ancora resistente nel campo della carità, ma ormai assai esile sul versante della cultura, soprattutto sulla capacità di far emergere la rilevanza spirituale e culturale della proposta cristiana. Ancora, è una nazione che da tempo viaggia su un doppio piano inclinato, quello della pratica religiosa che da 20 anni a questa parte progressivamente regredisce (da ultimo anche a causa della pandemia); e quello parallelo di una denatalità che consegna al nostro Paese un triste primato mondiale. Si può ancora ritenere «cattolica» (sembra dirci il cardinale tra le pieghe dell’intervista) una nazione che manifesta una così debole apertura ai valori della vita?

Il realismo di Zuppi e i punti di speranza

Colpisce in questa intervista il principio di realtà e la voglia di non nascondere le ragnatele. C’è del realismo in un Presidente Cei che ammette senza mezzi termini che è da 40 anni che parliamo di evangelizzazione; che non si illude che il modello Gmg possa frenare l’emorragia dei giovani dagli ambienti ecclesiali, perché il problema è ciò che essi trovano (o non trovano) dopo; che nel parlare del clima interno alla Chiesa evoca i molti anni in cui «ci siamo logorati in distinzioni fallimentari» tra associazioni, ma anche tra parrocchie e movimenti, soffrendo di allergie reciproche. Insomma, da un lato c’è uno spirito di corpo da ricostruire, dall’altro c’è la sfida che da sempre attende i cristiani: testimoniare la novità del Vangelo in ogni tornante della storia, anche in quest’epoca delle passioni tristi. Nonostante l’incipit, l’intervista registra spunti di speranza. «La Chiesa in Italia ha ancora un peso e una grande visibilità», ci dice il cardinale. Ma non si tratta della visibilità un po’ ambigua a cui mira una chiesa ‘identitaria’ e ‘muscolare’, che patisce l’essere minoranza e cerca posizioni di vantaggio pubblico; ma della rilevanza connessa ad una fecondità spirituale e religiosa che genera vita e intercetta le domande di molti. I segni al riguardo non mancano. Vi sono certo degli ambiti in crisi (come la pratica domenicale), ma c’è un senso religioso di base che si mantiene nel tempo, che si esprime perlopiù nei ‘luoghi’ meno ‘coltivati’, come i santuari o la religiosità popolare. Inoltre, ci sarà un motivo per cui la gente che non frequenta più le nostre parrocchie torna in Chiesa per celebrare i drammi umani e sociali che li coinvolge, come se questo fosse il luogo naturale (o di famiglia) in cui ritrovarsi. Ancora, si pensi ai tanti ‘lontani’ che «mostrano attenzione, attrattiva, simpatia» per le parole di papa Francesco e per come egli vorrebbe la Chiesa. In sintesi, i segni positivi non mancano negli ambienti ecclesiali che si aprono all’ ‘umano’ che è in ogni persona, si fanno terra accogliente, propongono una spiritualità e una liturgia che siano significative per la coscienza moderna.

Inclusività con parresia

Viene così delineata la missione della Chiesa oggi, in quella società plurale dove molti sono in ricerca e dichiarano di credere diversamente. Una Chiesa aperta a tutti, come insiste da tempo Papa Francesco, che tuttavia – nella sensibilità di Zuppi – deve evitare di trasformarsi in un albergo. Perché c’è una distinzione cristiana da promuovere e custodire. Come a dire che la proposta cristiana non deve essere generica, accontentare tutti i palati, in quanto «se ci va bene tutto, allora non diciamo più niente a nessuno». In una società aperta, ricca di molte fonti di senso (talune assai banali), il cristianesimo deve mantenere il suo carattere specifico e per vari aspetti controcorrente. Che si manifesta nella fede rigenerante del Vangelo, nella costruzione della comunità, nella prossimità agli ultimi, in una risposta ai bisogni umani che porti le persone a guardare in alto. Dunque: abbiamo qualcosa da dire? Certo che lo abbiamo, risponde Zuppi. «Il mondo è pieno di gente che si fa del male e vive male». Inoltre la ‘nostra specialità’, che ci deriva dal Vangelo, è «insegnare la bellezza di amare ed essere amati», ricordare a tutti che il contrario della paura non è il coraggio, ma l’amore. Solo che sovente la nostra fede è balbuziente, non riusciamo a sprigionare la freschezza della buona novella, non creiamo passione, comunichiamo più regole, divieti e moralismo che sapienza antropologica. E lo smarcamento dalla cultura diffusa deve emergere anche sul tema delle vocazioni, sia sacerdotali e religiose, sia dei laici credenti. Anche in questo caso ci siamo un po’ troppo omologati alla cultura del benessere. E qui Zuppi cita una frase di Frère Roger, fondatore della Comunità di Taizé: «Gesù non propone al discepolo ‘Sii te stesso’, ‘scegli tu’; ‘ma seguimi!’». Certamente il ‘seguimi’ permette di essere davvero se stessi. Resta da chiedersi se questa «Chiesa che è più di quel che sembra» sia anche in grado di affrontare le molte questioni (strutturali, organizzative e culturali) che da tempo condizionano la sua missione. L’intervista del card. Zuppi non affronta direttamene questi temi, in quanto è più orientata a delineare lo stile (più dialogico, più inclusivo, meno ‘normativo’) che deve informare la presenza della Chiesa nella società plurale, che a riflettere sulla ‘forma’ che la Chiesa deve assumere in questo momento storico: nel passaggio cioè da una società in cui la presenza cattolica era assai strutturata e diffusa ad uno scenario in cui il cattolicesimo vive una situazione di minoranza. Ciò non significa tuttavia che Zuppi non sia convinto che la Chiesa deve cambiare anche il suo volto umano e strutturale se vuole essere il ‘buon seme’ nella nuova situazione. È quanto emerge, ad esempio, in un passo dell’intervista, in cui si accenna al bisogno di una «riorganizzazione ecclesiale», da affrontare «nella prospettiva della missione», per evitare che essa dia adito soltanto «ad una sorta di ridistribuzione di ruoli, (…) una cosa non molto appassionante ed evangelica».

Tante domande, qualche risposta

In tutti i casi, sono questi i temi che oggi più affollano il dibattito pubblico ecclesiale, che più creano passione e tensione in quanti si interrogano sul futuro del cattolicesimo e della Chiesa in Italia. Tra questi temi: quanto è ancora attuale la formula della parrocchia in un’epoca carente di clero e caratterizzata dalla grande mobilità (anche religiosa) della popolazione? Come deve cambiare una Chiesa ancora incentrata sul ministero sacerdotale, a fronte della drastica riduzione del clero? Come comporre la dialettica in atto negli ambienti ecclesiali circa il modello di Chiesa da promuovere: quello del «piccolo gregge» o quello del «cattolicesimo diffuso»? Come far fronte alla crisi di leadership che si osserva oggi nella Chiesa italiana, sia tra i Vescovi sia nel laicato impegnato? Perché il mondo cattolico risulta così irrilevante nel campo della cultura? C’è la reale volontà di rendere i laici (e le donne in particolare) corresponsabili della vita ecclesiale? Come rivitalizzare un associazionismo ecclesiale oggi in difficoltà? Come dare credibilità non solo morale, ma anche culturale alla fede? Come uscire indenni dalle molte strutture che la chiesa deve gestire? Ecco i cantieri di riflessione che più emergono oggi nella chiesa di base, rispetto ai quali sarebbe prezioso conoscere anche l’orientamento del vertice della Cei, a cui spetta di sostenere questo vitale dibattito ed eventualmente tirarne le fila.