Cultura e profezia

Riprendiamo il tema del rapporto tra cattolici e cultura, su cui ci siamo soffermati il mese scorso, alla luce del dibattito, che continua, su Avvenire. Ci eravamo lasciati con un riferimento alla libertà (Formazione o educazione? Il coraggio di autorizzare la libertà), da intendersi come frutto, ma anche condizione, di un’esperienza di apertura all’altro, quale si configura essere il lavoro culturale. Cerchiamo ora di fare un affondo in questa direzione, per evidenziare come l’implementazione, nella libertà, della dimensione culturale sia per la fede via essenziale, feconda, foriera di profezia.

Possiamo ancora parlare di profezia? «ll passato viene dal futuro»

È quanto afferma Antonio Spadaro nel suo intervento su Avvenire centrato sul tema della creatività e dell’arte quale espressione di cultura, di cui, rileva Spadaro, studiamo la storia secondo modalità e prospettive date dalle aspettative del tempo presente. La selezione operata dalla memoria e l’interpretazione che si applica alle espressioni artistiche culturali, sono cioè filtrate dall’orizzonte di senso nel quale ci si colloca, dalla visione sul futuro. Per questo si può dire che “il passato viene dal futuro” e che la creatività connessa alla cultura ha una dimensione profetica.

Le evidenze della scienza, si pensi in particolare alla fisica moderna, ci aiutano ad accogliere quest’ottica di “relativizzazione” del tempo. Quando osserviamo che nell’elaborazione di senso emergono corrispondenze e divergenze tra vecchio e nuovo, secondo correlazioni non lineari: un’evidenza sperimentale contemporanea può recuperare e illuminare un’intuizione antica mostrandone la caratura profetica; così come, d’altro canto, proprio lo sviluppo del pensiero umanistico e scientifico lungo la storia, può imporre dei salti e delle svolte che non permettono di “salvare” tutto delle tradizioni passate. La dimensione profetica è allora connessa all’elaborazione di senso, e quest’ultima non si dà autenticamente senza libertà: di pensiero, di espressione, di re-visione quando necessario, ovvero di cambiamento di ottiche desuete.

Il lavoro culturale non si fa per mero accumulo, quanto piuttosto per integrazione di un atteggiamento costante di elaborazione creativa rispetto alla realtà. Sia che si dia in forma strettamente artistica, sia che si concretizzi in un silenzioso ed inesausto processo di studio e ricerca. Lavoro nutrito dalla vita, che ne è a sua volta fecondata. Intreccio inscindibile tra corpo, mente e spirito; consapevolezza di interconnessione universale e valorizzazione di ogni iota esistenziale, potenziale risorsa culturale e profetica.

A proposito della dimensione profetica del lavoro culturale, possiamo inoltre ricordare il concetto di “frattura instauratrice” elaborato da Michel de Certeau – il cui pensiero si mostra vieppiù attuale –, a proposito anzitutto della cesura data dalla morte di Gesù: esperienza traumatica di perdita, di lutto, di assenza, dalla quale però prende avvio la storia del cristianesimo, nell’elaborazione della consapevolezza della resurrezione. La stessa dinamica di frattura e instaurazione si osserva ad ogni svolta significativa delle nostre storie personali e collettive, suggerendo con forza che proprio qui e ora si stia dando un passaggio pasquale: da una forma di cristianità e di istituzioni ecclesiali che non reggono più alla prova della vita reale, ad una trasformazione, già in atto, che apre nuove vie, ri-significando il passato.

Profezia dunque come apertura al nuovo che impone una rilettura anche della tradizione cristiana, alla luce delle intuizioni e visioni che emergono dalle “provocazioni” culturali. Incisiva, in quest’ottica, l’affermazione di Giuliano Zanchi, quando rileva che stare fuori dalla cultura che ci provoca sulla fede «significa accettare il ruolo di badante sociale delle tradizioni che quest’epoca assegna alla Chiesa». Ecco: anche no.

Cultura e vita

Difficile non percepire che la riflessione sul rapporto tra cattolici e cultura conduce, senza meno, ad una riflessione più ampia, quando si comincia a toccare il tema delle trasformazioni in atto in quest’epoca della storia dell’umanità. Come dice Sergio Massironi nel suo contributo, non esiste una «cultura cattolica» se non come espressione di sapore antimodernista – da abbandonare quindi –, mentre dobbiamo riconoscere che emerge una discussione ben più dilatata e profonda su quanto stiamo vivendo come esseri umani, in un’ottica ecologica integrale, cioè di relazione con tutta la realtà. La storia ha già mostrato come vi siano epoche “assiali”, per usare in modo estensivo la terminologia di Jaspers, nelle quali a latitudini lontane e in condizioni locali molto diversificate, si determinano sincronicamente cambiamenti tali da segnare un punto di non ritorno, con il superamento definitivo di schemi culturali vecchi a favore di un profondo rinnovamento. Necessitiamo allora, in questo cambiamento d’epoca, di otri nuovi per il vino nuovo che sta fermentando (cf. Lc 5,36-38).

Prendiamo atto del venir meno (la “frattura”) di equilibri globali e locali di carattere politico, sociale, economico, culturale, certamente anche ecclesiale, attraverso modalità spesso violente (guerre, diseguaglianze, discriminazioni, disumanità – si pensi, come ad una tragica icona, alla vicenda di Satnam Singh –). Attraversiamo un tempo di grande incertezza. Incertezza rispetto alla quale si registrano reazioni di tenore molto diverso tra loro, tra desideri di restaurazione (populismi, nazionalismi, tradizionalismi) e spinte evolutive, in una tensione che abita anche le nostre vite quotidiane e piccole comunità, oltre che i processi mondiali.

Nel quadro complesso di tanto sommovimento, il lavoro culturale si mostra come via di discernimento, elaborazione e proposta creativa. Da declinarsi tutto al plurale: discernimenti, elaborazioni e proposte creative. Lanciamone alcune.

Per una «Pentecoste laica»

Colpisce nel segno l’espressione «Pentecoste laica» utilizzata dal latinista Ivano Dionigi nel suo contributo al dibattito, per indicare la necessità di «capire la parola di ciascuno», dove il riferimento alla comprensione rappresenta un passo ulteriore rispetto al semplice ascolto. Non si tratta cioè “solo” di dare udienza alle istanze provenienti dalla cultura (approccio multi-disciplinare), cioè da tutte quelle espressioni del passato e del presente che in qualche modo manifestano la realtà in cui siamo immersi. Ma si tratta anche di com-prendere, ovvero “prendere su di sé” tali istanze e lasciarsi toccare in profondità (approccio trans-disciplinare). Per alimentare una “postura della contaminazione” che, attraverso l’incontro – che è sempre anche uno scontro – con l’altro, favorisca crescite evolutive e non barricate involutive.

Una inaggirabile alterità con la quale ci si trova confrontati non appena si opera un’apertura del cuore e della mente, è l’alterità delle parole, dei linguaggi, delle narrazioni. Luigino Bruni sottolinea giustamente come la cultura cattolica sia immersa in una «difficoltà narrativa» per cui dobbiamo riconoscere che spesso gli stessi dibattiti teologici ed ecclesiali in corso parlano una lingua che è diventata muta per il nostro tempo culturale, e che esprime un’incapacità di riflessione ben più seria e profonda. Come reso purtroppo evidente anche dall’ultimo Instrumentum laboris in vista del Sinodo di ottobre, colmo di retorica e poca sostanza. A rischio di tautologica sterilità.

Un cristianesimo «esculturato»[1]? Quali opportunità di rigenerazione

Con parresia Chiara Giaccardi nel suo intervento esplicita che «l’evidenza sociale del cristianesimo è crollata» e che questo dato di fatto rappresenta «un’opportunità di rigenerazione». Una rigenerazione, aggiungiamo, che passa per la via del coraggio della rielaborazione, della visione profetica quale orizzonte di senso, e, non ultimo, della pazienza nel senso forte del termine greco hypomoné: quel “rimanere” (gr. meno) “sotto” (gr. Hypo), nel senso di reggere con fortezza la conflittualità della trasformazione in atto. Impegnandosi alacramente in un intenso lavoro culturale, per amore.


[1] Espressione utilizzata da Christof Theobald per indicare l’irrilevanza cui il cristianesimo è arrivato nella cultura europea