Compito per le vacanze?

Se c’è una pratica che, nella mia per- sonale esperienza di studente non ho mai sopportato, è quella dei libri di narrativa «consigliati» dagli insegnanti come compito per le vacanze, insomma, quella che costringe alle classiche letture estive. In primo luogo, infatti, ho sempre avvertito l’ipocrisia del termine «consigliare», ossia di un verbo che, nell’accezione scolastica, vuole essere un modo politicamente corretto per indicare un obbligo vero e proprio. In seconda battuta, la lettura imposta mi era antipatica perché si corredava sempre di qualcosa di indigesto, come ad esempio la redazione di una scheda di analisi sulle tematiche o sui personaggi. Schede che, ai miei tempi, non si trovavano su internet già confezionate e bisognava necessariamente redigere. Così, quando ho deciso di intraprendere la carriera dell’insegnamento, mi sono ripromesso che non avrei mai imposto libri di lettura estivi. Come diceva il buon Marx, però, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, per cui alla fine, nel corso degli anni, pure io ho finito col consigliare qualche libro. Se questo outing, per un verso, mi condanna, per un altro e a mia parziale discolpa, posso affermare con orgoglio che per i libri suggeriti non ho mai preteso la redazione di schede. Oggi più che mai, poi, assegnare questi lavori di ricerca è inutile, dal momento che tutto è già frullato, digerito e impaginato in internet e ammetto che, con tutta sincerità, di leggere una relazione scaricata in modo maldestro dal sito studenti.it non ho davvero alcuna voglia. La mia tecnica è, invece, più subdola e consiste nel chiedere a ciascuno dei miei studenti di portare a settembre un libro che intende suggerire ai compagni, senza censure. In altre parole, se si vuole consigliare la biografia segreta di Peppa Pig o un young adult di ultima pubblicazione si può farlo. L’importante è che vengano chiariti i motivi della scelta, magari proponendo la lettura di un passo del testo, e devo riconoscere che, con questo escamotage, nel corso degli anni qualche sorpresa qua e là c’è stata.

Un palazzo del Cairo anni ’30 e i suoi abitanti

La più eclatante è stata quella offerta da un mio studente di origini magrebine che, alcuni anni fa, ha portato all’attenzione della classe, e anche della mia, un bellissimo romanzo dello scrittore egiziano Asa al-Aswani Palazzo Yacoubian (1), romanzo che, da quel momento non mi stanco di suggerire. Si tratta di un’opera corale che cerca di rendere ragione dell’intricata natura sociale di un Paese ricco di storia e di tradizioni differenti quale l’Egitto, descrivendo un microcosmo estremamente rappresentativo: la variegata comunità che popola palazzo Yacoubian, situato nella centralissima arteria commerciale Suleyman Pasha. L’edificio è allegoria dell’eterogeneità sociale dell’Egitto, ma, più in generale, di tutte le realtà umane che caratterizzano i Paesi in via di sviluppo, sospesi tra passato e modernità, tra spinte conservatrici e forti scossoni inferti dalla globalizzazione. Nei dieci piani nobili del palazzo, infatti, abitano i nuovi borghesi, quelli arricchitisi attraverso le speculazioni e grazie alla corruzione politica, quelli che emergono sempre perché capaci di cavalcare l’onda lunga di ogni cambiamento, di essere modernisti e filo-occidentali negli anni Settanta e neo-conservatori negli anni Ottanta e Novanta. Nelle decine di micro-stanzini situati nell’ampio lastrico solare dell’edificio, invece, vive una fauna umana sommersa, povera, costretta ad arrabattarsi per sopravvivere e abituata a pagare il conto dei soprusi che hanno consentito al mondo borghese di creare la propria fortuna economica.

Il sentimentale Zaki Bey e l’affarista Hagg’Azzam

Così, il lettore naviga nelle prodezze erotiche e sentimentali dell’anziano ingegnere Zaki bey, nel cui sostrato sembra riecheggiare tutta la tradizione novellistica della letteratura araba a cominciare da Le mille e una notte, cui si contrappone l’ipocrisia religiosa dell’affarista Hagg’Azzam, espressione di quel mondo ormai anni luce lontano dalle seduzioni mitiche e tutto proteso verso la logica di un interesse, fintamente mascherato da scrupoli religiosi irritanti quanto fatui. O ancora, si incaglia nella vicenda umana di Taha, figlio del portiere del palazzo – forse il personaggio meglio riuscito del romanzo – attraverso il quale si può comprendere come un giovane si possa ritrovare a percorrere quel tremendo sentiero in discesa che conduce ad abbandonare gli ideali e la ragione per abbracciare la logica elementare e povera del fondamentalismo. Oppure, si commuove con Hatim Rashid, giornalista omosessuale, proveniente da una famiglia aristocratica di cultura europea, testimone di un mondo in cui gli ideali illuministici ai quali la sua cultura francese lo aveva iniziato sembrano frantumarsi progressivamente in un Egitto sempre più sordo all’Occidente e ai suoi valori. E ci si scontra con la vita dura e votata al sacrificio delle protagoniste femminili: Buthayna, prima fidanzata senza volerlo a Taha, e poi, dopo un lungo processo di formazione, capace di riscattarsi attraverso l’amore salvifico del vecchio Zaki bey; Su’ad, giovane e avvenente vedova, costretta dalle circostanze a diventare la seconda moglie di Hagg’Azzam e a subire da quest’ultimo profonde e laceranti umiliazioni; Radwa, vedova di un terrorista Kamikaze e sposa, in seconde nozze, del giovane Taha, divisa tra il dovere di essere al servizio della causa islamica combattente e i sentimenti che faticano ad affiorare perché soffocati dal tampone di ovatta degli insegnamenti guerrafondai dello sheikh Shaker. Nel romanzo si analizza una selva umana intricatissima e avvincente, quindi, che ci porta continuamente vicino e lontano da palazzo Yacoubian e che insieme lascia affiorare in superficie ragioni, sensibilità e linguaggi di una cultura che, pur con le sue contraddizioni, si rischia sempre di analizzare dall’esterno e di giudicare dalla comodità irreale dei nostri salotti. Al-Aswani ci conduce per mano dentro il cuore pulsante della società egiziana, che riesce a tradurre in storie, vissuti ed emozioni, e di cui è capace di lasciar emergere, impietosamente, le contraddizioni e, insieme, i forti valori. In particolare, poi, lo scrittore ci permette di comprendere le motivazioni socio-culturali interne all’Egitto, che contribuiscono a determinare le cocenti delusioni esistenziali da cui, a volte, si sviluppano le scelte più estremistiche di alcuni giovani, come nel caso del già citato Taha.

Il fondamentalismo di Taha

All’inizio della narrazione, infatti, Taha è un ragazzo animato da buoni sentimenti, studioso, serio, pervaso da un autentico e semplice sentimento religioso. La sua visione del mondo è salda e ancorata a schemi implicitamente desunti dalla religione musulmana. Secondo lui, Dio è il grande ricompensatore, è Colui che vede i soprusi e protegge il giusto, anche se con tempi e modalità che non è dato all’uomo conoscere. Per questo, dopo aver terminato il liceo, confida che con l’aiuto del Signore riuscirà a passare la selezione per entrare all’Accademia della Polizia, pur sapendo che generalmente ciò non è usuale per un ragazzo del suo livello sociale. Il sistema quadrato di Taha comincia ad entrare in crisi proprio in seguito alla grande delusione provocata dalla bocciatura all’esame, imputabile solo ai natali poveri del ragazzo. Anche se il mondo comincia a sembrare meno ordinato di quanto pensasse, Taha crede ancora che tutte le avversità siano delle prove da attraversare e con questo spirito decide di iscriversi alla facoltà di scienze politiche della capitale. L’impatto con gli altri studenti, per la maggior parte provenienti dalle file della media e alta borghesia della città, è estremamente difficile. Temendo di dover fornire quelle informazioni sui suoi natali che l’avrebbero reso ridicolo davanti ai compagni, Taha decide di fare vita ritirata e di non rivolgere la parola a nessuno. Per spezzare questa insopportabile solitudine, così, si reca alla moschea e qui gli si palesa una realtà del tutto differente: il luogo sacro risulta essere frequentato da persone che, come lui, sembra- no spaesate, timide e indossano abiti poco costosi. In moschea, Taha fa la conoscenza di uno studente più grande, Khaled’Abd-al-Rahim, che si distingue dagli altri sia per l’estrema povertà dell’abbigliamento sia per la profonda devozione che anima la sua pre- ghiera. Dopo qualche mese, Khaled introduce Taha in un gruppo ristretto di ragazzi, tutti poveri e molto devoti, ai quali sembra palese che il potere politico, corrotto e violento, sia in realtà ispirato a principi preislamici, contrari agli insegnamenti del Profeta. Taha comincia a frequentare Khaled e i nuovi amici anche fuori dall’Università, recandosi ogni venerdì alla moschea dello sheikh Mohammed Shaker. Le parole pro- nunciate dallo sceicco durante la predica del venerdì scuotono profondamente la co- scienza del ragazzo: lo sceicco esalta i valori religiosi, ricordando a tutti i presenti che l’uomo è chiamato da Dio alla vita eterna e che la morte stessa è solo un passaggio verso tale eternità. Il solo scopo dell’esistenza, sottolinea il predicatore, è combattere per esaltare la parola di Dio, senza temere la morte e considerando la vita terrena come un accidente, effimero e infinitamente breve. Trascurando il jihad, dice lo sceicco, in- teso come lotta contro il potere che obnubila il messaggio divino e contro il materialismo che incatena l’individuo a ciò che non ha significato, l’islam si è trasformato in una religione, in un formalismo rituale senza spessore. L’islam, ricorda lo sheikh, è invece un grande invito a servire l’unico Iddio, combattendo ciò che rende vuoti i suoi insegna- menti, ossia il potere politico che, uniformandosi ai valori occidentali della democrazia, consente, sul piano della morale privata, il consumo degli alcolici, le relazioni extraconiugali e l’omosessualità, mentre, sul piano dell’etica pubblica, alimenta i soprusi, la corruzione e la povertà. Taha è rapito dalle parole del religioso; avverte che la lettura della realtà offerta dallo sheikh è capace di fornire risposte ai drammi della pro- pria esistenza e finisce col credere che la corruzione dei costumi e del potere, quella che l’ha escluso, sia frutto del «male» democratico. Nelle vibranti parole dello sceicco e poi nell’amicizia fraterna dei compagni, Taha ritrova un senso forte che si sostituisce allo smarrimento provocato dagli insuccessi; gli sembra di comprendere che solo una riconversione alla lettera dell’Islam possa ricondurre l’Egitto alla salvezza e alla giustizia. Per questi motivi abbraccerà la causa fondamentalista, seguirà l’apprendistato militare e parteciperà a un agguato terrori- stico dove troverà la morte agognata.

Leggere per conoscere

Ed è nella delineazione di questo personaggio che il romanzo di Al-Aswani si rende indispensabile per comprendere come, davvero, la retorica fondamentalista faccia breccia in coscienze lacerate dalle ingiustizie e sia frutto indiretto dei sistemi profondamente corrotti che governano molta parte del medio oriente. Se poi a queste ingiustizie si risponde con nuove oppressioni o con sistemi che, semplificando la realtà, rispolvera- no vecchie incrostazioni teocentriche, è ovviamente un’altra questione la cui analisi non rientra nelle intenzioni dell’autore. Al-Aswani, tuttavia, ci permette qualcosa di veramente importante: di sporgerci nel- l’abisso di un mondo che non conosciamo per tentare di capire come avviene che dei giovani colpiti duramente dalle ingiustizie della vita arrivino a credere che solo con la morte e la violenza si potrà ripristinare un ordine giusto e sacro. Per queste ragioni, e per moltissime altre, come fece con me il mio studente, consiglio vivamente la lettura di questo capolavoro, che è costato al suo autore durissime condanne dagli ambienti più integralisti dell’islam. Un consiglio, ovviamente; non un obbligo!

Nota (1) A. Al-Aswani, Palazzo Yacoubian, Feltrinelli, Milano 2006.