Comfort-zone vs Cultura

Nel titolo di questo contributo faccio eco alle considerazioni contenute nell’articolo di Pierangelo Sequeri uscito su “Avvenire” il 5 febbraio 2024, da cui, insieme al rinforzo offerto da Roberto Righetto, è partito un dibattito ancora in corso sul rapporto tra Cattolici e Cultura[1]. Desidero inserirmi in questo dibattito con alcune riflessioni spalmate su due interventi, vista l’ampiezza – e, oserei dire, la bellezza – del tema.

“Cultura”, ovvero?

La cultura è relazione con l’“a/Altro” nell’alveo della quale relazione si dà l’identità. La presa d’atto consapevole di questa dinamica umana essenziale, conduce alla cura delle relazioni – con sé, con Dio, con ogni altro/a, con il tutto – attraverso strumenti esperienziali e cognitivi frutto di condivisione di vita, di studio e di dialogo non pregiudiziale. E sembrerebbe che proprio in questa relazione con l’alterità trovi fondamento sia il desiderio che spinge la ricerca e l’apertura, sia la paura che induce chiusure e integralismi; e che il fattore dirimente in questa dinamica polare tra fecondità del nuovo – il Nuovo cristiano che è il Cristo evangelico – e sterilità dell’apologetica – nutrita di tradizionalismi e devozionismi –, è la libertà. Una libertà che quando vissuta apre processi, scardina monoliti mentali (anche dottrinali), sveglia le coscienze e lascia entrare folate di ossigeno spirituale. Con un’ottica evolutiva in cui le domande sono più importanti delle risposte. Domande che se non si rinnovano, denotano la stasi culturale, anche teologica.

Proviamo allora a porci anzitutto nuove domande e seguiamone l’impatto. Con una premessa: rispetto al dibattito cultura-cattolici condivido quanto scritto da Davide Rondoni, ovvero di fare attenzione a non “misurare” l’impatto della cultura cattolica “in modo moralistico, sociologico e spesso banalmente politico”, cioè in termini ideologici, stantii. Per cui propongo che il criterio di valutazione possa essere piuttosto l’attivazione (o meno…) del desiderio di Dio e di una vita colma di Senso, desiderio responsabile di quella forza attrattiva che sin dalle origini ha caratterizzato eminentemente l’esperienza cristiana (si veda su questo il bell’intervento di Costantino Esposito)

Di cosa abbiamo paura? Il coraggio di toccare la dottrina

Aprirsi agli stimoli della cultura rimette in circolo energie vitalizzanti per il pensiero cristiano, che altrimenti rischia, in questo cambiamento d’epoca, lo stand-by per esaurimento. Dove uno dei segni di questo “esaurimento” è la pigrizia mentale (culturale) trasversale a molti ambienti confessionali, non ultimo quelli religiosi. Una sorta di pesante sonnolenza, risonante con quel sonno che ha ottuso i discepoli nel Getsemani, incapaci di vegliare con Gesù nel mistero pasquale che si stava dando: un mistero di silenzio e coraggio.

A partire dal risveglio invece, si dà un ri-pensamento, un ri-orientamento, una ri-elaborazione anche teologica, a tutti i livelli: pastorale certamente, ma anche dottrinale. Se guardiamo al pontificato attuale osserviamo una volontà coraggiosa di riforma sul piano pastorale e di dialogo con le istanze contemporanee – pensiamo ad Amoris laetitia e, prima ancora, ad Evangelii gaudium –, certamente in linea con la propulsione data dal Concilio Vaticano II. Ma in tutti i casi ci si premura sempre di sottolineare che la dottrina non viene modificata (cf. AL 3.79; EG 41), mentre sappiamo che lungo la storia della Chiesa si sono avuti, ovviamente, fenomeni di revisione anche dottrinale. Si pensi, per citare un tema caldo e attuale, alla teologia del ministero ordinato, che non è sempre stato concepito come oggi; ma si potrebbero fare tanti altri esempi (non ultima, la dottrina relativa al sacramento del matrimonio).

Conservare la dottrina attuale come una bottiglia di acqua distillata – immagine usata da Papa Francesco nel 2014 a proposito dei carismi religiosi –, intoccabile per paura di contaminazioni, non è evangelico. Guardiamo al Vangelo e ricordiamo, tra i tanti esempi che si potrebbero citare, l’esperienza di conversione teologica a cui Gesù stesso accetta di sottoporsi in occasione dell’incontro con la donna cananea (Mt 15,21-28). Gesù pensava di essere inviato solamente al popolo di Israele e scopre, ascoltando una donna (…) straniera (…) pagana (…), di non aver ancora compreso pienamente la volontà del Padre. E si apre. Con grandissima libertà interiore converte il suo sguardo ad un nuovo orizzonte universale, sconfinato, imprevedibile, inclusivo e non più settario. Difficile non cogliere le risonanze per l’oggi del cristianesimo, chiamato, nella sequela inesausta di Cristo, ad una vera “cattolicità” (universalità) attraverso l’ascolto delle voci minoritarie, tra cui quelle delle donne, e di tutte le voci “diverse”: interconfessionali, interreligiose, interculturali. Sennonché le voci hanno bisogno di linguaggi per esprimersi ed essere sentite.

Quali nuove “parole pensiero” traducono la Parola oggi? Il coraggio di cambiare linguaggio

Interessante, tra gli altri, anche l’intervento di Massimo Cacciari, che invita il pensiero cristiano ad un’alleanza con i pensieri laici critici rispetto al nostro presente secolarizzato. Alleanza, aggiungiamo, che comporta una “contaminazione” salutare, di linguaggi oltre che di pensieri. Nella consapevolezza che il linguaggio non si limita ad esprimere un pensiero previo, ma è esso stesso fautore di pensiero. La scelta delle parole, come anche dei simboli del linguaggio non-verbale (si pensi alla liturgia), esprime e allo stesso nutre un orizzonte di Senso e lo “denuncia”. Rendendo visibile e tangibile l’humus da cui emerge.

Come non riconoscere la povertà culturale di un certo linguaggio cattolico divenuto ripetitivo, muto, ininfluente? E come non intuire – anche alla luce di piccole esperienze che cominciano a punteggiare l’orizzonte – la potenzialità di un rinnovamento dato, per esempio, dalla transdisciplinarietà? Dove si tocca con mano la fecondità di categorie “altre” – culturali, appunto –, portatrici di pensieri “altri”, con cui entrare in un dialogo espansivo e rigenerativo.

Ma questo comporta la fatica della cultura, ovvero l’impegno dello studio e della creazione delle condizioni essenziali a renderlo possibile: tempo, sostegno economico, libertà (come ricordato da Silvano Petrosino). Ci si potrebbe allora chiedere se i nostri ambienti confessionali siano effettivamente interessati ad investire concretamente in questa direzione, o se non prevalga tendenzialmente l’idea di non avere bisogno di darsi tanto da fare, visto che la Rivelazione è chiusa e non c’è molto altro da aggiungere …

Formazione o educazione? Il coraggio di autorizzare la libertà

Sul piano etimologico, “formare” (dal latino formare) ha a che fare con il “dare forma”, a partire da una configurazione (ideologica ed esistenziale) da apporre al formando. Educare invece (dal latino e-ducere) indica piuttosto il “trarre fuori” qualcosa che è già dentro all’educando, affinché questa unicità possa emergere e passare dalla potenzialità all’atto, diventando un dono da condividere. In questa seconda dinamica endogena, si rispetta l’identità profonda della persona, offrendo un accompagnamento sapiente che permetta lo sviluppo integrale della persona. Questo servizio dovrebbe costituire il vero servizio dell’autorità, di quell’auctoritas (da augere: “far crescere”) il cui senso genuino, come ci ha spiegato bene Michel de Certeau, è proprio l’autorizzazione della libertà d’essere, della libertà di rispondere alla vocazione più profonda che abita ciascuno/a in maniera irriducibile.

“Acculturarsi” allora non è accumulare nozioni e tanto meno farne uno strumento di autoaffermazione narcisistica, ma, ben più autenticamente, rappresenta un cammino di incessante scoperta: di Dio, di sé, della multiforme e cangiante realtà. Assumendo il rischio del confronto con l’ignoto, a cominciare da tutto ciò che si ignora … per fare l’esperienza liberante e umiliante (connubio densissimo) che quanto più si conosce tanto più si prende coscienza dell’immenso che non si conosce. Questo assunto di socratica memoria, mostra che l’essere coscienti della propria radicale ignoranza, libera dall’arroganza, rende docibili e fa spazio al Nuovo incarnato.

Anche per questo, torneremo nel prossimo intervento a girare il dito nella piaga, nella speranza di una guarigione “per seconda intenzione”.


[1] Si veda, anche rispetto ai contributi citati durante l’articolo: https://www.avvenire.it/Search/cattolici%20e%20cultura?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR2uauKyQjSQDJTiyD0rxNYFf4mPKTCqu4bEI-JdsCJSLtu8W-R8v06L9Cg_aem_AXz38k2NeabmaMXF390KJAgQFqvNPHyzFv7HYtchj5euK0gV29eqw1hAjLp5LvkIL97UfW9EssPjDT2wqTwF_Jzx