Politica e cultura
Chi ricorda la sinistra indipendente
La “fantasia” politica di Enrico Berlinguer
…Poter continuare a credere che la Politica può essere una cosa bella
e che può essere fatta dando tutto, senza chiedere in cambio nulla, ed
essere felici lo stesso. Ecco, questa è l’essenza dello stile di Enrico
Berlinguer, il suo lascito morale più importante.
Pierpaolo Farina
Se un giovane sociologo nato l’anno della “caduta del muro”, cinque dopo la morte di Enrico Berlinguer, rimpiange di non aver conosciuto uno che “quando parlava eri felice perché sentivi di far parte di una comunità che il mondo lo voleva cambiare per davvero”, ci si sente mortificati. Perché è uscita una bellissima mostra rievocativa del leader comunista. quarant’anni dopo. A celebrare il mito dopo la pesante rimozione da parte del vecchio Pci ed eredi che privilegiavano le politiche di appeasement più con la Democrazia Cristiana che, quando venne eletto Presidente del Consiglio Bettino Craxi, con l’uomo che impersonava l’eterno trauma del 1921, quando dalla scissione di un Psi abbastanza forte in Parlamento era nato il Partito Comunista d’Italia mentre Turati espatriava. Non c’era più Berlinguer e il Pci “migliorista” perseguiva una “linea” meno di lotta e più di governo.
Negli anni Settanta la storia stava superando antichi schemi e gli esperti non amanti dello scontro tra le due Grandi Potenze sapevano che il comunismo sovietico si era auto condannato. Il partito italiano – che in senso proprio “comunista” non era mai stato – rimase intrappolato nella fedeltà all’Urss e avrebbe infine perso dieci anni prima di cambiare il nome a un partito che non era più quello di Togliatti. Forse adesso si è fatto più chiaro che la storia “obbliga” a fare i conti: fortunatamente il Pd è rimasto un “partito”, anche se deve vedersela con i derivati del movimentismo che hanno nomi stravaganti e antipolitici da cinque stelle a forza Italia o fratelli d’Italia.
La società civile e gli indipendenti di sinistra
Nel febbraio del 1984 in uno scritto sull’Unità (Indipendenti e Pci. Molte cose non stanno più nella “forma partito”) citavo Vittorio Foa, un sostenitore degli “indipendenti di sinistra”, non solo come figure di alcuni intellettuali ed esperti che davano il loro contributo in Parlamento, ma per le fasce sempre più larghe della società civile che sentivano l’esigenza della partecipazione genericamente progressista o socialista, senza militanza in formazioni politiche. Era già evidente la perdita dell’identità ideologica: senza riforme, la forma-partito non era per sempre. Che il Pci dovesse aprirsi alle diverse culture era scritto nel programma del ’76 di Berlinguer. A partire dal referendum sul divorzio, la “massa” era scivolata ad essere “società civile” e la politica del Pci non poteva più essere il “partito/chiesa”. Gli “indipendenti di sinistra” il segretario del Pci li inventò per la campagna elettorale del ’76, corollario di quel “compromesso storico” che subì la maledizione di cambiare natura: da operazione di apertura tra culture – comunista, socialista, cattolica – divenne sinonimo di pratica di intelligenza tra il più forte partito di opposizione e il governo. Gli indipendenti erano personalità note a livello nazionale o locale che, non comuniste, appoggiavano il Pci nel tentativo di costruire un’alternativa al “malgoverno” da troppo al potere. Eletti nelle liste del Pci allargavano i confini del partito a nuova partecipazione, una pratica intelligente di nuova politica e di nuovo consenso. Lelio Basso, Stefano Rodotà, Altiero Spinelli, Gaetano Arfè, l’ecologista Giorgio Nebbia, Natalia Ginzburg, Andrea Barbato, il giudice Terranova ucciso dalla mafia, l’economista Luigi Spaventa erano nomi che portavano esperienza e professionalità nelle aule parlamentari. Il concetto di pluralità – in contrasto con il pluralismo – era un’accezione della cultura femminista compresa nell’apertura che il Pci offriva a non iscritti e non aderenti non solo perché disponibile alla variabilità del sociale, ma per aprirsi a differenze culturali finallora ignorate e potenziali bacini di consenso. A partire dalla scoperta di un mondo politico cattolico in piena rivolta e disposto a uscire allo scoperto, che aveva trovato un catalizzatore nell’incontro del maggio 1986 alla Badia Fiesolana, dove p. Ernesto Balducci ospitò un gruppo di amici – tra cui i futuri parlamentari Raniero La Valle, Mario Gozzini, il dirigente Rai Angelo Romanò, lo storico Paolo Brezzi, Piero Pratesi, direttore del quotidiano Dc Il Popolo, ovviamente nessuna donna – che avevano tenuto contatti con Antonio Tatò segretario di Berlinguer, uno dei non pochi credenti che negli anni Cinquanta e Sessanta si iscrivevano al Psi e al Pci saltando l’ostacolo della scomunica. A prescindere dal cattocomunismo, espressione oggi equivoca per chi tiene distinte le appartenenze di fede dalle scelte politiche, la pattuglia degli indipendenti crebbe, anche se tra i senatori i cattolici mantennero un coordinamento particolare (li aveva preceduti Adriano Ossicini). La registrazione del Gruppo parlamentare della Sinistra Indipendente alla Camera fu meglio definita quando il numero ne consentì l’autonomia in termini regolamentari: nel 1987 i deputati della SI erano 20 e i senatori 17. L’esperienza continuò mentre il Pci andava verso l’89, ma non divenne modello di pluralità politica della sinistra. Anzi, se ne cancellò la memoria. Eppure non fu irrilevante per l’innovazione implicita di rottura del pregiudizio anticomunista che già aveva fatto danni e che colpirà mortalmente il tentativo coraggioso di dare una svolta alla politica italiana con l’assassinio di Aldo Moro.
L’austerità e la cooperazione mondiale
La prima delle battaglie culturali di Enrico Berlinguer bloccate dal suo partito fu la proposta dell’austerità, avanzata nel gennaio 1977 al Convegno degli intellettuali organizzato al teatro Eliseo a Roma. Il Manifesto di allora definì il discorso conclusivo del segretario del partito “epocale”. Di fatto ne era stata immediatamente stravolta l’interpretazione, come se Berlinguer auspicasse una politica di sacrifici nel bel mezzo della lotta per l’avanzamento produttivo del Paese. In realtà rispondeva a uno dei “segni dei tempi”: la necessità di una nuova politica dell’economia, ancora non globale ma tale di fatto. I tempi erano maturi – tenendo conto della natura dello scontro tra le esigenze di liberazione dall’oppressione del potere capitalistico nel Cile di Pinochet, l’Argentina dei desaparecidos o il Sudafrica dell’apartheid: l’aumento della conflittualità avrebbe finito per danneggiare le stesse economie dei Paesi egemoni. Occorreva una politica di cooperazione mondiale che sbloccasse l’empasse della contraddizione tra le grandi miserie in basso e le grandi ricchezze in alto che si riproduceva sia nei singoli Paesi, anche dell’Occidente, sia su scala mondiale, con grave danno per la necessaria modernizzazione del sistema produttivo da estendere a quella che era già la “globalizzazione”. Schematicamente: era necessario rendersi conto che, se due terzi dell’umanità non tolleravano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di emarginazione, di inferiorità rispetto ai popoli e Paesi che avevano finora dominato la vita mondiale, l’umanità doveva evitare la decadenza di civiltà e dare soluzione alle prevedibili crisi generalizzate. Bastava che i Paesi ricchi – anche l’Italia – programmassero di sacrificare qualche benefit per risanare il debito del Sud del mondo e riequilibrare le economie mondiali.
Era il 1977: se era stato un momento magico, il Pci non se ne era accorto. Qualche anno dopo il Partito Radicale portò in Parlamento la Cooperazione allo sviluppo e anche l’Italia ebbe la sua politica di assistenza al Sud del mondo, il cui “sviluppo”, comunque progettato dalle scelte capitalistiche, servì a finanziare prima di tutto le nostre imprese. Il Pci – anche la SI – cercò di migliorare la nuova legge che, modificata, resta la politica ufficiale del Maeci (Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale).
Il femminismo e il Pci
Le donne comuniste erano insofferenti per il paternalismo del partito e affiancavano l’onda femminista. Rivolgendosi loro nella manifestazione dopo le elezioni non trionfali del 1979 ma con aumento del numero delle elette, parafrasando Marx avvertiva che «non può essere libero un uomo che opprime una donna», ma, soprattutto attribuiva alle donne una funzione guida: siamo usciti «da un vecchio schema, che influenzò anche il pensiero e l’azione di grandi rivoluzionari di ogni tempo, secondo cui prima si deve fare la rivoluzione sociale e poi si risolverà la questione femminile. Non deve più essere così: il processo della rivoluzione sociale e quello della liberazione della donna da ogni forma di oppressione, compresa quella che si è storicamente determinata nel campo della sessualità, devono procedere di pari passo e sostenersi l’uno con l’altro». Non lo intese mai così l’azione del Pci, le cui Commissioni femminili continuavano a sostenere il patriarcato. Come per la Chiesa il ricatto continua a funzionare: avrete la parità se vi adeguerete al modello unico. Quello per cui in Italia ci sono due donne a capo dei due poteri, del governo e dell’opposizione. E anche Ursula….
La questione morale
Erano passati pochi anni. Ormai Berlinguer aveva visto crescere la partitocrazia, l’insidia delle pratiche “spartitorie” a sostituzione delle mediazioni politiche: l’intervista di Eugenio Scalfari raffigura un uomo consapevole della propria sconfitta. «I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali… Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti”. Si imponeva la questione morale, che «non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano». Era purtroppo tardi: sosteneva l’estraneità del Pci, ma quando su questo attaccò il governo in Parlamento, il gruppo comunista lasciava percepire quasi fisicamente il distacco di una parte che ormai viveva la “normalità” del degrado politico. Un paio di anni dopo Miriam Mafai pubblicava Dimenticare Berlinguer.
A Marcello Sorgi è venuto in mente di intitolare San Berlinguer, credo senza intenzione ironica, un suo libro che, oltre ai ricordi di giornalista, alcune interviste. Claudia Mancina giudica ancora Berlinguer un antimoderno (non aveva capito che il consumismo è un pezzo di libertà) e accusa la questione morale di essere stata seme dell’antipolitica. Anche Claudio Petruccioli – che sente “religiosi” i toni degli interventi berlingueriani: in certi momenti sembrava san Francesco quando parlava agli uccelli e ai lupi – ritiene che con l’intervista (a Scalfari) aveva aperto la porta del Pci al qualunquismo e al populismo. Questi giudizi a così lunga distanza confermano le fratture di un partito apparentemente monolitico e la sua divisione tra apocalittici e integrati, ma anche la potenzialità non solo mitica di una politica ancora da studiare per quello che ne percepì allora – e ancora intuisce – la gente: ne fanno testo l’emozione di tutto il Paese alla sua morte e il rimpianto oggi dei giovani che non l’hanno conosciuto.