Caro fratel Arturo

A 10 ANNI DALLA MORTE DI ARTURO PAOLI

Sono ormai due anni dall’ultima volta che ho portato un fiore sulla tua tomba, in fondo al tratturo che conduce al minuscolo cimitero di San Martino in Vignale. Con esso ho voluto recarti i saluti della comunità dei nostri lettori che hanno goduto della tua presenza di mezzo secolo nella vita della rivista; il primo articolo sul numero 17 del 1967! Come sai Rocca ha voluto e vorrebbe continuare ad essere una sorta di bussola per orientare pensieri e cammini evangelici in questo mondo e in questa società che, da quando te ne sei andato, non ha certo frenato l’erosione di quei valori umani e cristiani per i quali non hai mai cessato di combattere con parole, opere e senza omissioni. Col tuo linguaggio che arrivava dritto alla testa e al cuore di quelli che ti ascoltavano per convinzione o per contrapposizione. Anche tu non le hai mandate a dire, nemmeno alla tua Chiesa, alle sue fragilità, ai suoi tradimenti. Infine sei stato fortunato ad incontrare Francesco, un papa che ha saputo riconoscere la tua testimonianza, quella di Mazzolari, quella di Milani. Speriamo che questo cammino tra i feriti della Chiesa e del mondo possa continuare. Speriamo. Tu ricordalo all’Amico.

Caro Arturo, rammento con nostalgia (non è una malattia quando non impedisce ma aiuta a guardare al futuro) i momenti d’incontro, a Spello, in Cittadella, a Trevi, a casa mia o di qualche amico comune, la tua straordinaria capacità di fare spazio, di dire le parole essenziali, soprattutto di ascoltare e raccontare storie di vita e di volti, esperienze di accoglienza, di fraternità, di solidarietà, di lotta per rendere il mondo più giusto e la Chiesa più cristiana.  Sempre contemplazione e strada, contemplattivi, come amate dire voi della famiglia di frere Charles. Non due modi di essere cristiani ma sur la route dell’unità di preghiera e impegno sociale, di adorazione e lavoro manuale e intellettuale costante, di sequela del Signore e fedeltà alla terra. Servire il tempo senza esserne asserviti. Seguire il Signore servendo i più poveri. Tu l’hai fatto con gioia e senza risparmio da piccolo fratello, ad ogni latitudine, da Lucca al deserto, all’Argentina, al Venezuela, al Brasile, a tanti luoghi del nostro Paese, nel lungo percorso della tua vita centenaria spesa fino all’ultimo. E spesa sin dall’inizio collaborando da giovane prete lucchese con il Comitato di liberazione nazionale, contribuendo, con altri confratelli, a salvare la vita a centinaia di ebrei. Con emozione ho scorso il tuo nome scritto sul muro d’onore al Giardino dei Giusti dello Yad Vaschem a Gerusalemme. Ti ho visto felice e sorridente quando, avendo onorato l’Italia, svergognata dalle leggi razziali del fascismo, il 25 aprile 2006, ricevesti dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi la Medaglia d’oro al valore civile.

L’ultima tua rubrica rocchigiana, dal 2009 al 2013, si denominava “amorizzare il mondo”, sentivi molto tua questa espressione di Teilhard de Chardin, amouriser le monde, un proposito evangelico ma per te anche un progetto politico nel senso alto che la politica può avere se si propone di essere “la più alta forma di carità” (Paolo VI). Sappiamo quante repliche della storia smentiscono questa utopia eppure il messaggio che ci hai lasciato è il dovere e la passione della perseveranza, la pazienza dell’attesa nel senso di farci carico delle nostre responsabilità e di saper aspettare che i frutti maturino. Il compito è quello che hai detto in un titolo di Rocca: schiodare Cristo dalla croce. Riscoprirne la divinità nell’umanità, organizzare la speranza a partire dal far diventare testata d’angolo la pietra scartata. Mettere lì la punta del compasso per disegnare una circonferenza sociale che ci renda più giusti e quindi più felici.

Caro Arturo come non vedere che questo è un cammino difficile, le guerre di ieri e di oggi, le nuove potentissime gerarchie sociali che mettono insieme tecnologie, soldi e politica come avevi ben intuito mettendoci in guardia, sulla scorta del tuo amato Levinas, da disumanizzanti derive tecnocratiche che nascondono i volti sotto una coltre di cifre inappellabili e sacre, le disuguaglianze crescenti nel nome di una libertà senza vincoli etici e sociali, la demolizione progressiva di ciò che è comune nel conformismo dell’individuo-massa, ci parlano di una ybris quasi invincibile negli umani ; eppure tu continui a indicarci l’Amico (eri davvero un mistico con gli occhi aperti) come pienezza di umanità secondo il sogno di Dio. Un’alternativa alle logiche oppressive, distruttive, ingiuste; gabbie d’oro piene di solitudine e tristezza, anche per coloro che le costruiscono. Ricordo che una volta sulle colline di Spello parlammo, perché eri un uomo di profonda curiosità culturale, della rilettura del mito di Ulisse da parte di Adorno e Horkheimer: quest’uomo dominante che, affinché si potesse resistere al canto delle sirene, non solo rende sordi i suoi servi ma è costretto lui stesso a farsi legare. In ogni caso e malgrado tutto ti immaginerei adesso, nella fragilità del tuo corpo, a far risuonare in modo potente la tua voce profetica che, ad un tempo, denuncia la profondità del male, personale e sociale e annuncia la possibilità e l’urgenza di costruire soggetti e percorsi di liberazione.

Ancora oggi ci diresti di mantenerci aperti allo “spirito buono”, come lo chiamava Sorella Maria, (ricordi? L’amica del padre di tutti gli “eretici” ancora confinato nella damnatio memoriae: Buonaiuti), che ci aiuti a cogliere nella nostra lingua, nella nostra cultura, nel nostro contesto vitale i segni dei tempi, a liberare le relazioni umane dallo sfruttamento, dalla sopraffazione, dalla volontà di potenza e di possesso e ci impegni a riaprire cammini di fraternità. In fondo l’umanità non ha mai abbandonato, con mille errori e tragedie, il sogno di una cosa. Per i cristiani vivere qui e ora almeno uno scampolo della logica del Regno, nell’attesa della sua venuta che restituisca anche agli sventurati di ogni tempo dignità e pienezza. Lo sappiamo, caro fratel Arturo che, anche dentro i luoghi, perfino i migliori, della vita cristiana e laica è complicato vivere la concordia nella diversità, la capacità di ascolto reciproco e di risanamento delle ferite: spesso anzi corruptio optimi pessima (non c’è niente di peggio che la corruzione del meglio). Per questo abbiamo bisogno di donne e uomini che, come te, abbiano la forza mite e tenace di ridirci ogni volta che è possibile percorrere un’altra strada. Che è possibile essere insieme anime aperte, persino grandi, e piccoli fratelli, piccole sorelle, seminatori di futuro.