Abitudini e resistenze dal Sud

Ci si abitua a tutto, col tempo. Alla guerra, come una costante della storia umana scritta finora. Alle armi, inventate, prodotte, perfezionate, vendute, usate ed esportate. Alle sue conseguenze che sono gli sfollati, i rifugiati, i morti, i cimiteri, le lacrime postume delle madri e il rancore sordo dei padri. Alla violenza sacrificale ufficiale e quella quotidiana come mezzo per placare gli dei nascosti del potere di alcuni e della sottomissione di molti. Alle frontiere, come barriere per rassicurare l’inutile certezza delimitativa tra noi e ‘loro’, i barbari che ancora non parlano la ‘nostra’ lingua franca universale. Ai diritti umani scritti, ratificati e applicati secondo le circostanze soprattutto di chi li viola. Citati, insegnati, trasmessi e poi fucilati sul posto, i diritti in questione che si trasformano in bare, croci o piccole colline di sabbia che il deserto dimentica.

Ci si abitua a tutto, col tempo. Alle parole che spariscono e a quelle prese in ostaggio dal potere del momento. A quelle deformate, manipolate, tradite, espropriate, vendute o semplicemente perse sulle strade che non hanno un cuore. Quelle degli inutili proverbi di un mondo andato via col mercato delle merci che hanno colonizzato le parole fino a ridurle in schiavitù. Arruolate nei media comandati a bacchetta dagli stessi che governano il mondo come un’impresa multinazionale per conservare i privilegi di una classe sociale. Alle politiche che hanno smesso di produrre parole che hanno un senso. Si limitano alla gestione amministrativa per allontanare i poveri e i volti oltre il mare che, invece, della politica sono la ragione stessa.  Il declino delle parole e quello della politica sono indivisibili perché nati assieme come gemelli.

Ci si abitua a tutto, col tempo. Alla menzogna sul proprio destino e sul senso delle cose da perdere. All’abbandono puro e semplice, come inutili cimeli, di ideali e immaginari che hanno fatto sognare generazione di umani. Al progressivo restringimento dell’orizzonte che spinge, come l’utopia, ad andare e rischiare sentieri non battuti e pericolosi. A una vita vissuta al ribasso, in difesa, senza in realtà mai abitarla con riconoscente attesa. Alla chiusura del possibile mistero dell’esistenza che potrebbe aprire a paesaggi inediti di un’umanità finalmente liberata dalla paura della libertà. Alle porte chiuse dalla strategia del sospetto e del controllo di tutto quanto non dia garanzie di fedeltà al regime. Alla morte come passaggio obbligato della vita e dunque da censurare come una vergogna o una sconfitta. C’è ancora, invece, chi resiste come può e ripudia di stare al mondo per abitudine. Dissente dal credere che la miseria, l’ingiustizia e un mondo diviso siano il solo destino da coltivare. Contesta l’ignobile eppure vincente tentativo di naturalizzare le disuguaglianze e divinizzare i privilegi. C’è ancora chi, come tenta di fare Dio, non si lascia ingabbiare da riti, olocausti o templi nei quali mantenere il mondo com’è. Resistono coloro che disertano le promesse di facciata e non si allineano con chi illude con la vendita di un biglietto, a buon prezzo, per un futuro senza storia. Si innamorano senza calcolo, hanno figli nei quali specchiarsi e sanno che né la vita né il corpo sono di loro proprietà. Tessono pazientemente e con tenacia parole antiche da lasciare come eredità al vento.