Scuola
Anno nuovo, vecchie questioni
Il nuovo anno scolastico appena iniziato porterà qualcosa di buono al nostro malmesso sistema scolastico? Le ultime rilevazioni Invalsi non sono incoraggianti. Per la prima volta scricchiola anche il comparto finora solido della scuola primaria, mentre le verifiche degli apprendimenti a poche settimane dalla maturità dicono che le competenze di un diplomato su due sono inferiori a quelle corrispondenti al titolo, dunque inadeguate a misurarsi agevolmente con studi impegnativi o con le sfuggenti sfide del mondo del lavoro. Alla dispersione “rende comprensibile” (gli abbandoni sono sopra il 13%, più delle medie europee), si somma quella “implicita”, è il 20% già alla fine della scuola media. Non solo. I risultati formali della maturità, diversi per area territoriale e con votazioni sempre più alte nel Mezzogiorno, contraddicono le valutazioni Invalsi. Quanto pesa, e con quali impatti alla fine sul valore legale del titolo, l’evidente difformità valutativa della scuola? E perché in Italia, pur con un obbligo d’istruzione decennale (e una scuola dell’infanzia frequentata dal 95% dei bambini), i risultati, le carriere scolastiche, la scelta dei percorsi successivi al primo ciclo sono ancora così marcati dall’origine socio-culturale? È solo arretratezza culturale o pesano come macigni elementi strutturali come la costrizione a scegliere troppo presto – due anni e mezzo prima della conclusione dell’obbligo –, l’assenza di materie opzionali con cui maturare scelte autentiche, la gerarchizzazione dei percorsi, un orientamento che più che a vocazioni e capacità effettive guarda ai voti o addirittura all’estrazione sociale, alla provenienza, perfino al genere? Fanno parte dei problemi una “licealizzazione” abnorme (più del 55% della scolarità, oltre il 66% da Roma in giù) e una svalorizzazione del tutto inattuale e unica in Europa dell’istruzione tecnica e professionale, con i noti effetti nefasti sul mismatch nel mercato del lavoro. Sullo sfondo, una scuola che riesce sempre meno, per com’è organizzata, il profilo culturale, le metodologie, la diseguale professionalità dei docenti, a interagire con gli interessi, gli stili di apprendimento, i linguaggi di giovani che guardano e si appassionano a tutt’altro, fallendo sul doppio versante dell’istruzione e dell’educazione. Non sono solo i bassi stipendi e l’assenza di carriere a minare l’attrattiva, per i migliori laureati con altre opportunità d’inserimento professionale, del lavoro nella scuola.
Ritocchi più che riforme, aggiunte più che innovazioni
Che cosa sarebbe necessario cambiare? Sul punto la babele, o meglio l’afasia della politica, è massima. Da tempo la retorica della scuola inclusiva oscura la sua deriva “classista”, le anticaglie culturali, i limiti della didattica, mentre è diventato quasi impossibile riacciuffare il filo di proposte riformatrici coerenti con il nuovo valore che ha per tutti, e sempre di più, una solida istruzione scolastica (e una buona educazione alla cittadinanza). Ne consegue, pur nell’inesausta pretesa di governo centralistico delle oltre 8.000 istituzioni scolastiche, un desolante andare a vista dei singoli istituti a fronte di politiche nazionali quasi sempre di corto respiro. Ritocchi più che riforme, aggiunte più che innovazioni. Ogni idea di trasformazione strutturale è ricacciata nell’angolo buio del troppo complesso, troppo divisivo, troppo rischioso rispetto all’esigenza di un consenso immediato, o almeno di un non dissenso. Ora è l’università che pone dei veti, ora i sindacati, ora le forze politiche (è successo col ministro Berlinguer, con il secondo governo Prodi, con il presidente del consiglio Renzi, e con chiunque ci abbia in un modo o nell’altro provato, e sta succedendo anche con Valditara). Anche quando le risorse ci sono (come oggi, con i 17 mld del PNRR), è più facile aggiungere che riformare. In attesa che qualcosa cambi davvero, ma diffidando di ogni cambiamento che possa mutare il triste equilibrio basato sullo scambio tra bassi salari e scarsa esigibilità di prestazioni professionali all’altezza del ruolo, la scuola italiana maschera i suoi limiti sotto il lavorio incessante di un progettificio instabile, di cui nessuno, tanto meno il ministero dell’istruzione, è interessato a verificare e utilizzare i risultati.
Il “merito” per gli insegnanti? Nessuna svolta
Alla ripresa, studenti e famiglie hanno trovato più continuità che discontinuità con il passato. Sebbene il ministero Valditara si sia presentato come radicalmente innovativo fin dall’aggiunta del “merito” alla sua denominazione, nelle politiche più decisive per la qualità della scuola – formazione iniziale, reclutamento, mobilità, qualità professionale degli insegnanti – non c’è traccia di svolte in questa direzione. Un precariato docente di più di 200.000 supplenti annuali, la permanenza dei soliti dispositivi indifferenti ai bisogni della scuola e degli studenti, il colpevole immobilismo sugli insegnanti di sostegno (il 66% sono senza specializzazione, moltissimi utilizzano il titolo solo per entrare in ruolo prima di altri per trasmigrare appena possibile su posti ordinari), i concorsi banditi in ritardo e per non più di 80.000 posti, sono un mix che non lascia scampo. Ci saranno, come sempre, molte cattedre scoperte su cui si alterneranno insegnanti diversi, discontinuità educative e didattiche, traumatici cambiamenti nel sostegno ai ragazzi con disabilità gravi. Neppure per i dirigenti scolastici, una platea numericamente più gestibile, si riesce a far meglio quando il parlamento ingoia senza colpo ferire un emendamento leghista con cui si dispone un concorso riservato senza valutazione finale per i bocciati di un concorso precedente contro cui hanno fatto ricorso.
Il “merito”? Cercate altrove, non a questo indirizzo. Rimettere ordine nei pasticci normativi costruiti negli anni sotto le più varie pressioni sindacali, politiche, dei Tar, è certo impresa ardua, che non si può fare a colpi di spugna. Ma Valditara e il governo Meloni hanno evidentemente deciso di aggirare l’indicazione del PNRR di procedere a una seria riforma dell’abilitazione professionale e del reclutamento degli insegnanti della secondaria, il vero buco nero della scuola. La riforma decisa dal governo Draghi, da attuare entro il 2024 con l’assunzione in ruolo di 70.000 insegnanti, prevede che chi vuole insegnare nella secondaria aggiunga alla laurea magistrale un anno di specializzazione universitaria in cui imparare a farlo, basato oltre che su insegnamenti teorici su tirocini guidati da insegnanti esperti. Una svolta, finalmente. Ma dopo mesi di pressioni dei sindacati interessati più al numero che alla qualità delle assunzioni, e degli atenei che puntano a fare ciascuno a modo suo secondo le loro disponibilità e convenienze, la decretazione attuativa firmata Valditara è assai deludente. Nessuna uniformità formativa a livello nazionale, poco rigore nei corsi, crediti abbonati un tanto al chilo ai precari, porte aperte alle università telematiche. E in più, dopo tanto traccheggiare, è del tutto improbabile rispettare i tempi previsti dal PNRR. Perderemo i finanziamenti? Forse. Per il prossimo anno, intanto, i concorsi saranno ritagliati per lo più sull’esigenza di rispettare i “diritti acquisiti”. Un disastro per i neolaureati, visto che il calo demografico (100.mila iscrizioni in meno l’anno) imporrà prima o poi una restrizione degli accessi al lavoro scolastico.
Tutor e orientatori: una novità che non convince
In verità l’annunciata centralità del tema del “merito” è finita per ora in coda di pesce anche rispetto agli studenti. Adottata per ragioni identitarie da una destra politica decisa a caratterizzarsi in antitesi al presunto “buonismo”educativo di una sinistra succube del Sessantotto, di Don Milani e di altri rovinosi distruttori di sani ed antichi principi, il tema è stato posto dal ministro in modo quanto mai confuso in termini culturali e pedagogici, ed anche programmatici. Un vero peccato perché, a differenza di quanto spesso sostenuto a sinistra, la valorizzazione del “merito” contro i condizionamenti e i pregiudizi (classisti, etnici, di genere) è un tema tutt’altro che peregrino in campo scolastico dove il vero successo nell’apprendimento non è fatto solo di talenti naturali (o sociali), ma sempre anche di impegno, concentrazione, ricerca e adesione personale a un progetto di vita. Non necessariamente una forzatura, dunque, come mostrano tutti i movimenti che combattono le discriminazioni anche sul terreno della scuola, e tema rilevante anche in termini di diritto allo studio, come dice la Costituzione in riferimento agli “studenti meritevoli”. Comunque sia, tra le imperdonabili gaffe iniziali di Valditara (indimenticabile quella sul ruolo educativo dell’“umiliazione”), la fortunata assenza, per il momento, di proposte programmatiche della destra su una scuola strutturalmente “meritocratica”, la levata di scudi di un rumoroso fronte pedagogico poco propenso a ragionarne laicamente, l’enfasi sul merito si è tramutata rapidamente in una più minimal e rassicurante valorizzazione della didattica personalizzata, sia per chi ha più problemi di apprendimento (tramite attività di recupero?) sia per i più talentuosi (tramite attività di rafforzamento e sviluppo?).
Lo strumento, del tutto improprio, è stata un’altra riforma richiesta dal PNRR, quella sull’orientamento, che dal prossimo anno interesserà gli ultimi tre anni della secondaria di II grado (mentre le priorità di intervento sarebbero tra scuola media e il primo biennio della superiore, dove si decide davvero del proprio futuro, e spesso si sbaglia). Gli studenti del triennio dovrebbero quindi, se tutto va liscio, incontrare fin da settembre quasi 50.000 tra insegnanti tutor – uno ogni 30-50 studenti – e insegnanti orientatori – uno ogni 600 studenti, quindi 1-2 per istituto. Non si tratta di nuove figure (sono insegnanti interni che si sono autocandidati), né di figure stabili (s’impegnano a svolgere le attività aggiuntive per un solo triennio) appositamente selezionate e preparate professionalmente (hanno potuto usufruire, di sole 20 ore di formazione estiva a distanza). Non si sa inoltre quali funzioni specifiche dovranno svolgere, in particolare gli orientatori su cui la nuova norma non dice quasi niente, né se dovranno interagire soprattutto con gli studenti o, dato il rapporto numerico previsto, con i colleghi. Si sa però che saranno assai modestamente retribuiti (da 2850 a 5000 Euro annuali lordi i tutor, da 1000 a 2000 gli orientatori) e che funzioni e compenso non prefigurano in alcun modo l’avvio di percorsi di carriera. Niente di veramente nuovo, quindi, rispetto al volontariato professionale dei molti che si prestano, a titolo poco meno che gratuito, a svolgere funzioni organizzative o specifiche di vario tipo, dall’intercultura all’alternanza studio lavoro. Siamo, dunque, ancora una volta, nel regno dell’aggiuntivo, dell’approssimativo, dell’instabile. Ma Valditara ne parla come del primo passo per “la rivoluzione del merito”. Sarà così?
Costi della scuola, PNRR, un altro liceo che non convince
E poi c’è parecchio altro, preoccupante o non convincente. Intanto l’incremento netto dei costi, trainato dall’inflazione e non calmierato dal ministero, di libri di testo e cartoleria (fino a 500 Euro per la prima media) e delle tariffe per i servizi di mensa e trasporti. Poi la mancata gestione degli effetti del calo demografico, col risultato che se in molte scuole dell’infanzia e primarie si stenterà a formare le classi, nelle prime della secondaria di II grado, dove è massimo il rischio degli abbandoni, cresce invece il numero delle “classi pollaio”. In terzo luogo la persistenza, per il ritardo dei concorsi, di dirigenti scolastici con più “reggenze”. Infine lo stravagante avvento del nuovo liceo del “made in Italy”, un’altra decisione di sapore identitario che ha però dimenticato non solo che gran parte delle nostre esportazioni all’estero è fatta non di food o di abbigliamento di lusso ma di macchine per lavorazioni industriali e artigiane, ma anche che tutte o quasi le materie contemplate dal nuovo liceo sono già svolte dall’attuale istruzione tecnica e professionale. Sullo sfondo, un’ancora incerta riforma dei tecnici che prevedrà, forse, una loro prossima quadriennalizzazione per incentivare il passaggio degli studenti agli istituti di formazione tecnico-professionale di livello terziario; i ritardi e forse la liquidazione di molti progetti PNRR sull’edilizia scolastica e nuovi nidi e scuole per l’infanzia; le fin troppo abbondanti risorse finanziarie distribuite alle scuole per il contrasto della dispersione scolastica, il superamento dei divari territoriali, la digitalizzazione. Cosa riusciranno a farne se continueranno a mancare indicazioni, priorità, e soprattutto le competenze interne – le “figure” appositamente preparate e retribuite – per la progettazione? Il ministro Valditara, intanto, intrattiene i giornalisti – è un vero pallino – su come modificare le sanzioni agli studenti indisciplinati. La confusione sotto il cielo è massima, ma la situazione è tutt’altro che eccellente.