Stereotipi di genere e famiglia

Una scena della serie Adolescence

Molti erano in agguato per trovare un passo falso di papa Leone XIV nelle sue prime affermazioni: appena ha definito la famiglia come «fondamentale per la società» e «fondata sull’unione stabile tra uomo e donna», si è gridato allo scandalo e alla chiusura alle coppie omosessuali. Nei suoi discorsi ha invitato in effetti i governi a investire nella famiglia, creando un ambiente propizio alla sua crescita e stabilità; ha ribadito l’importanza del ruolo educativo dei genitori e ha chiesto di proteggere la famiglia da «tutte le forme di violenza e di degrado sociale». In attesa di ascoltare altri elementi che approfondiscano in tutta la sua complessità la realtà della «famiglia», riflettiamo proprio sull’aspetto educativo.

Uno dei casi recenti in cui un dibattito su famiglia, scuola ed educazione è nato a seguito della messa in onda di serie o film riguarda il caso di Adolescence (2025): quattro episodi girati con la tecnica del piano sequenza per aumentare il realismo delle riprese e la performance degli attori che non escono mai dal personaggio.

Partendo da fatti di cronaca nera il regista Stephen Graham propone agli adulti – genitori, educatori, docenti – di affrontare la questione dell’abisso comunicativo che si sta stabilendo fra le generazioni. Una conseguenza è che i ragazzi vivono in una realtà insospettabilmente dura, spesso dominata da aggressività pervasiva grazie ai dispositivi e ai social media sempre attivi, una realtà che considerano “normale” perché è l’unica che conoscono. In essa si stabiliscono gerarchie e codici quasi tribali, regole non scritte e da rispettare nei rapporti fra maschi e femmine, mentre gli adulti appaiono poco autorevoli, distanti e poco presenti, nel migliore dei casi affettuosi ma incapaci di trasmettere una sapienza realmente utile alla propria vita percepita come troppo differente.

LA “NORMALITÀ” DELLA VIOLENZA VERSO LE DONNE

Così non è impossibile che ragazzini tredicenni non sappiano come gestire le proprie emozioni o le sensazioni di corpi che cambiano, che sentano di dover portare da soli la vergogna o la sofferenza per il rifiuto o l’emarginazione del gruppo o dei soggetti “popolari”, che non sappiano distinguere con chiarezza fra virtuale e reale, fino al punto di considerare «nulla di sbagliato» il pugnalare a morte una coetanea.

La vicenda prende in considerazione una famiglia unita della cosiddetta working class inglese, che deve affrontare l’abisso di scoprire che il proprio figlio sia un assassino. Non si tratta del thriller in cui si cerca di capire il come e il chi, quanto piuttosto il perché del delitto. Una ragazzina alle prime esperienze affettive condivide foto intime con il ragazzo che frequenta e lui diffonde in rete le immagini; i coetanei prendono a offendere e bullizzare lei, la quale sfoga la sua frustrazione e rabbia sottolineando l’inadeguatezza del protagonista, proprio mentre quest’ultimo cerca di realizzare un rozzo tentativo di approccio verso la compagna che pensa più raggiungibile a causa della difficile situazione che sta vivendo.

A sua volta il ragazzino che si vede brutto, rifiutato, ormai definitivamente associato alla categoria di “celibe involontario”, assorbe la propaganda di gruppi misogini che colpevolizzano le ragazze e le donne per la propria solitudine affettiva e sessuale, fino all’occasione che lo renderà capace di uccidere.

Una sintesi di tante questioni che i parlamenti e le istituzioni educative, dalla scuola alla Chiesa, cercano di affrontare apparendo tuttavia sempre in ritardo. Chi vive in Paesi anglosassoni conferma la piena verosimiglianza delle situazioni descritte: bullismo e cyberbullismo, body shaming, revenge porn, incel (involuntary celibacy), le folli regole di Andrew Tate e tutto il mondo della “mascolinità tossica”, il tutto in un ambiente scarsamente empatico e discretamente indifferente. Una famiglia non particolarmente problematica, un ragazzino brillante che, come tanti coetanei, finisce ad alimentarsi nella manosphere, la “maschiosfera”, una realtà che accomuna gruppi e movimenti online in cui si condividono idee di estrema destra o “destra alternativa”, che vedono la società come discriminatoria nei confronti degli uomini a causa dell’influenza del femminismo, il quale promuoverebbe sistematicamente l’odio nei confronti degli uomini, defraudandoli dei propri diritti.

LA TEMPESTA PERFETTA E L’INVITO DI GESÙ

Dunque in una perfetta combinazione di situazioni personali, di gruppo e sociali maturano i knife attacks, aggressioni con colpi di coltello, decine di migliaia solo in Gran Bretagna operate da adolescenti fra i 10 e i 19 anni, ma che tristemente si stanno moltiplicando in tanti altri Paesi fra cui l’Italia, basti pensare al caso di Sara Campanella, di poco più grande.

In un tale quadro ci viene in aiuto un singolare episodio narrato da Matteo e normalmente citato a scopo vocazionale per incoraggiare i giovani a scegliere il “celibato per il regno”.

Gesù vive un’umanità in cui si identifica coi bambini, i servi, gli eunuchi e questi modelli propone ai suoi discepoli. Nel discorso su ripudio e matrimonio cerca di far superare la durezza di cuore che caratterizza tanti rapporti e prassi. La reazione dei discepoli mostra la visione e le aspettative dei contemporanei di Gesù: «Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi» (Mt 19,10).

Il matrimonio e in generale la relazione uomo – donna non è questione di “convenienza” o di commercio. Tantomeno dovrebbe essere una situazione nella quale esercitare un dominio del maschio come essere ontologicamente superiore. Gesù allora, a chi può capire, spiega che si tratta di cambiare radicalmente l’equilibrio dei rapporti, non solo qualche regola esterna. «Vi sono eunuchi nati così… ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca» (Mt 19,12). Propone il modello degli eunuchi che non è sinonimo tanto di celibato, ma della scelta anche interna al matrimonio in cui i maschi scelgono di non ostentare la propria vera o presunta forza e in tal senso di farsi “impotenti” davanti alle mogli, di relazionarsi alla pari, senza possesso e senza privilegi. La virilità, l’essere autenticamente uomo, non passa più per modelli in cui sbandierare prestanza fisica, aggressività (anche sessuale), mancanza di emotività, quanto piuttosto per un fraterno e amicale dare la vita per l’altro, come Gesù stesso ha fatto.

L’interrogativo che resta a noi è valutare quali modelli maschili e femminili passino nell’educazione e nella spiritualità delle nuove generazioni. Se anche in questo ambito si sta creando una frattura con la dimensione della fede. Se la pluralità delle situazioni fino a una certa frammentarietà spinga alcuni a riproporre visioni rassicuranti nella loro “tradizionalità” dimenticando l’insito potenziale distruttivo soprattutto, ma non solo, per le ragazze. Infine, se la Bibbia e in particolare il Vangelo contengano testi e personaggi che sostengono stereotipi di genere o piuttosto se li contestino, mostrando altre vie più umane. Probabilmente non è rimandabile anche da questo punto di vista un passaggio pasquale che le comunità ecclesiali e civili sono chiamate a vivere.