Chiesa e teologia
La pace è giusta e il mondo ha ancora bisogno del cristianesimo
conversazione con Matteo Maria Zuppi

Alcuni dicono che Matteo Maria Zuppi in questo momento sia l’uomo di Chiesa più vicino a papa Francesco, delle cui idee di pace e rinnovamento è fra i più coinvolti e partecipi portavoce («In realtà siamo in molti – tiene subito a precisare –, ed è merito della capacità impressionante di papa Francesco di creare relazioni e di coinvolgere nella sua passione perché il Vangelo raggiunga i cuori di tanti»). Quello che lega Zuppi al pontefice è un fraterno rapporto di affetto e di stima reciproca, che negli ultimi anni si è ulteriormente rafforzato. Fu papa Benedetto a nominarlo vescovo ausiliare di Roma e poi papa Bergoglio, nel 2015, lo volle arcivescovo metropolita di Bologna, investitura cui poi seguirono la creazione a cardinale nel 2019 e la nomina alla presidenza della Cei nel 2022.
Zuppi ha accettato di incontrare Rocca nonostante gli impegni pressanti. Lo raggiungiamo al telefono alle 7.30 di mattina, poco prima che venga fagocitato dall’agenda quotidiana.
Eminenza, l’attuale condizione di fragilità del Papa rende più flebile la sua voce di esortazione alla pace e alla fratellanza. Quanto può pesare questa lontananza nell’attuale situazione di grande incertezza e complessità?
Non credo che la voce del Papa sia lontana. Al contrario, la sua testimonianza si fa sempre sentire nella comunione, che è la comunicazione vitale nella vita dei cristiani. Ovviamente, tutti preghiamo perché la sua condizione di fragilità fisica si risolva, ma credo che mai come in questo momento la sua presenza sia percepita da tutti. Per analogia mi viene in mente la potenza dell’immagine di papa Giovanni Paolo II, quando nell’Angelus del 16 marzo 2003, già molto segnato dalla malattia, lanciò il suo messaggio al mondo per scongiurare la guerra in Iraq, dicendo che c’era ancora tempo per negoziare, che c’era ancora spazio per la pace e che non è mai troppo tardi per comprendersi e per continuare a trattare. È la stessa invocazione che proviene oggi da Francesco, che non è nella sua piena forza fisica, ma senz’altro esprime una gigantesca forza spirituale. Speriamo che i suoi appelli siano ascoltati.
In qualità di emissario pontificio per la pace, lei è stato inviato dal Papa in una serie di cinque viaggi diplomatici tra Kiev, Mosca, Washington e Pechino. Cosa ricorda di quei viaggi e degli incontri che ha avuto?
Ricordo una unanime considerazione, un diffuso sentimento di rispetto nei confronti di papa Francesco. Quella della pace è una tela delicata e fragile, che va intessuta con molta pazienza, e che ha bisogno di tutti gli interlocutori. Tutti possono concorrere a comporla. Talvolta i risultati tardano ad arrivare e le situazioni di conflitto si trascinano quasi per forza di inerzia, e questo è terribile. Ma devo dire che in quelle missioni ho ricevuto da ogni parte testimonianze di tentativi sentiti di porre fine alle controversie: tutti i nostri interlocutori, di qualunque parte fossero, ci hanno accolto con il desiderio di fare tutto il possibile. C’è stata scrupolosa attenzione sulle parole da dire e su quelle da non dire. Spero davvero che quanto è stato seminato porti i frutti che tutti attendiamo.
Cosa pensa della politica estera di Trump? Quale potrebbe essere la via giusta da imboccare per una pace giusta in Ucraina e in Palestina?
Innanzitutto distinguerei fra la politica dei titoli dei giornali, quella dei media, dei social e delle dichiarazioni, e la politica e la diplomazia “realizzata”, quella dei provvedimenti effettivamente posti in essere, dei documenti firmati e resi operativi. In questo senso, va detto che l’avvento di Trump ha scombinando indubbiamente gli scenari e sembra innescare, anche se in modi talvolta spiazzanti, molti punti interrogativi, ma anche processi di dialogo come non avveniva da troppo tempo. E quella del dialogo è l’unica via percorribile per risolvere i conflitti. È giunto il momento di lavorare tutti insieme e di trovare delle soluzioni percorribili. Papa Francesco veniva accusato di volere parlare con tutti; io penso che sia stato fermo sull’unico metodo capace di mettere fine alla violenza. Lei mi chiede quale può essere una pace giusta. E io le rispondo: il punto essenziale è che la pace è giusta. È l’unica condizione possibile perché gli uomini si parlino e convivano insieme. Direi che la pace è giusta quando non è una semplice tregua, un armistizio temporaneo che lascia tutti con il fiato sospeso e con la sensazione che nulla di profondo sia stato risolto, perché con la pace si risolvono le cause che hanno determinato il conflitto e si trovano le garanzie che permettono l’applicazione degli accordi.
L’esigenza di un rinnovamento della Chiesa è un punto essenziale del pontificato di Bergoglio. Lei stesso da anni si batte per l’integrazione, per l’accoglienza di migranti, tossicodipendenti, omosessuali, transessuali, dando un segnale forte in direzione di una Chiesa proiettata nell’oggi e nel futuro. Il Sinodo, convocato dal Papa per rafforzare e incoraggiare la partecipazione e la voce di tutti i membri della Chiesa cattolica romana, è stato un insuccesso, come sostiene qualcuno, o saprà incidere nel prossimo futuro, aprendo nuove strade?
Si tratta intanto di una grande realtà che ha innescato esperienze di dialogo, di incontro, insomma una grande scommessa, ma innanzitutto rappresenta un metodo, un modo di essere Chiesa. Infatti parliamo di cammino sinodale, a rimarcare la differenza fra uno “stile” di comportamento e un semplice evento interno alla Chiesa. Quella della sinodalità è una vera visione di Chiesa, una sua realizzazione cosciente. È importante capire che la cultura sinodale non è mera tradizione, non è congelamento, ma cammino consapevole nel presente e nel futuro. E la Chiesa deve essere accogliente per sua natura, perché se non lo fosse tradirebbe il Vangelo.
Quale ruolo possono assumere donne e laici per una Chiesa capace di superare il clericalismo?
In un cammino da percorrere insieme, ciascuno è importante, mettendosi a sevizio e in armonia con i doni e le caratteristiche che gli sono propri. Qui non si tratta di un riordino interno, di una redistribuzione di incarichi o di ruoli, ma di essere fedeli al mandato evangelico che chiede a tutti, con differenti responsabilità, ma a tutti, di vivere e comunicare il Vangelo. È una grande sfida che possiamo vincere tutti insieme, compresi ovviamente le donne e i laici, e che possiamo capire solo in una dimensione pastorale.
Come vede il cristianesimo dei prossimi decenni? Che cosa ha da dire e da vivere di essenziale?
C’è un grande bisogno di cristianesimo. La domanda di Dio, di significato, di futuro sarà sempre radicata nell’essere umano. L’uomo digitale è compulsivo, ma la sua anima non potrà mai esserlo: l’intelligenza artificiale non risolverà mai il problema del senso della vita. Già papa Benedetto lo aveva sottolineato: la desertificazione spirituale, il materialismo pratico, il senso di impotenza di fronte alle grandi forze della natura e della storia accrescono la sete di verità dell’uomo, il suo desiderio di dare un senso alla realtà. Il mondo è sempre più individualizzato, competitivo e disumano; si allunga la vita per poi buttarla e si identifica la felicità individuale con il consumo. Ecco, in un mondo così è sempre più valida l’idea che “non di solo pane vive l’uomo”.
Quale potrebbe essere il ruolo dei cattolici in Italia? Come direbbe il nostro direttore, Mariano Borgognoni, le chiedo non con quale partito, ma con quale spartito, con quali idee e proposte per la società civile…
Penso che la 50a Settimana sociale dei cattolici italiani tenuta lo scorso anno a Trieste abbia insegnato molto sull’importanza della presenza dei cattolici nel tessuto sociale e culturale del nostro Paese. Un Paese che rischia di invecchiare, di chiudersi nella paura del presente, di non saper guardare al futuro. La dottrina sociale della Chiesa è profondamente radicata nella storia e nella vita degli italiani, e credo che tutti, anche i laici, siano consapevoli di quanto questo fatto eserciti un’influenza positiva sulla vita e sul sentire delle persone.
Ci racconta qualcosa sui suoi personali rapporti con la Pro civitate christiana? Quando e come si sono incrociate le vostre strade?
Mio papà Enrico, che è stato per tutta la vita un giornalista molto vicino alle tematiche sociali e cattoliche, era profondamente legato alla Pro civitate, essendo cresciuto con la Compagnia di san Paolo e con l’Opera cardinal Ferrari sempre animate da don Rossi, punto di riferimento che ha contribuito a formare la sua sensibilità e le sue scelte professionali e umane. Giovanni Rossi è stato una delle figure determinanti per la sua formazione, un uomo che anche noi in famiglia, fin da giovani, abbiamo imparato ad amare. Vedevamo papà emozionato e contento di stare con lui, farsi abbracciare da questo padre nello spirito. Nel mio cuore, la Cittadella è sempre un luogo di meraviglia, di pace e di incontro. Ogni volta che ci torno ritrovo le tracce di me stesso e della mia famiglia.
In chiusura, vorrei farle una domanda molto personale. Molti sostengono che il giorno che Francesco non fosse più il Papa, il naturale candidato al soglio pontificio potrebbe essere lei. Con quale stato d’animo accoglie questa possibilità?
Tutti sono naturali candidati e per fortuna è lo Spirito a guidare le scelte! Le racconto che ieri al termine di una visita in una Parrocchia un vecchio tutto emozionato guardandomi negli occhi mi ha detto: “Il prossimo Papa devi essere tu”. Io mi son messo a ridere e gli ho risposto: “Ma tu sei matto! Io scappo, non mi faccio mica prendere!”. Oggi abbiamo tutti in mente solo il servizio, il ministero, il dono della vita di papa Francesco, nella speranza che torni all’attività di sempre. All’orizzonte non c’è nient’altro, e poi come sempre è solo nostro Signore a disporre ciò che è nei suoi disegni. Ogni altra cosa è lontana dai miei pensieri.