L'editoriale
Lo spartito dei cattolici

“Sono convinto che quando tutto sembra perduto, noi dobbiamo continuare a lavorare con tenacia e con calma. Dobbiamo contare su noi stessi, sulle nostre forze, senza facili illusioni e senza abbandonarci alle delusioni”. Questa riflessione gramsciana sembra suggerirci l’atteggiamento giusto in un tempo nel quale gli ideali di solidarietà, di partecipazione civile, di democrazia formale e sostanziale appaiono sotto attacco in gran parte del mondo e guadagna campo l’idea che si possa e si debba trasformare il governo in comando, la forza in diritto, la disuguaglianza in destino, la differenza in discriminazione. Un vero e proprio capovolgimento delle culture di matrice cristiana e socialista che fino a qualche decennio fa avevano dato forma e forza alla speranza di costruire società capaci di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3 della Costituzione). Dentro questo preoccupante processo, che inizia ad estendersi anche in Europa e che vede il nostro Paese come una punta avanzata, molti hanno notato una certa afonia dei cattolici, anche se va detto che quando essi si decidono a parlare non è sempre un bel sentire. Non mi riferisco solo agli agitatori di rosari elettorali e agli amanti dei presepi etnicamente puri (e quindi falsi) che fanno perfino del crocefisso un simbolo identitario da dare in testa agli altri (eppure attenti che dietro i successi di Trump, di Orban, di Meloni, ma anche al consenso intorno a Putin c’è molto mondo cristiano) ma anche a chi torna a identificare i cattolici con il cosiddetto centro, col moderatismo come categoria dello spirito. È sempre da ricordare l’acuta distinzione che Mino Martinazzoli faceva tra moderazione e moderatismo: una virtù politica e civile la prima, la sua opportunistica caricatura il secondo.
Bisogna essere attenti a non far passare le esigenze di radicalità presenti nel Vangelo come iperboli dell’altro mondo, buone solo per l’altro mondo e non per questo; va bene che le ricordi il Papa, dicono con sussiego quelli che la sanno lunga, è il suo mestiere. Ofelè fa el to meste’ si usa dire a Milano per invitare uno a non impicciarsi degli affari altrui: questo è l’atteggiamento dominante verso Francesco quando denuncia il sistema di guerra e il gigantesco groviglio di interessi che gira intorno alla costruzione delle armi, alla loro vendita, al loro uso per distruggere, ai lucrosi introiti per ricostruire. In questo senso mi ha molto colpito un greve intervento parlamentare di Graziano Del Rio che addirittura rivendicava la primogenitura del suo partito (il Pd, ma nel Pd c’è di tutto: atlantismo viscerale e pacifismo indefesso) sulla linea dell’aumento delle spese militari e nell’invio di armi all’Ucraina, peraltro senza insistere troppo sulla via diplomatica. Ha più o meno detto al ministro Crosetto: benarrivato sulle nostre posizioni, a Crosetto! Ho voluto ricordare questo intervento perché Del Rio è uno dei promotori del recente convegno milanese dei cattolici di Comunità Democratica. Giusto per dire che non basta evocare l’esigenza di una prise de parole da parte dei cattolici: bisogna vedere cosa dicono. Nella Settimana sociale di Trieste si è sostenuto, assai opportunamente e realisticamente, che i cattolici non hanno bisogno di un partito ma di uno spartito. Bene questo è il punto: scegliere le note giuste perché ne esca un’armonia persuasiva ed efficace. Nella convinzione che è necessario un deciso ritorno alla politica come pratica diffusa, consapevole, competente di esercizio della cittadinanza: cammino faticoso ma ineludibile se si vuol evitare una oligarchizzazione del potere e un definitivo logoramento di ciò che rimane del tessuto democratico (dove rimane). “L’amore politico”, ha detto il Papa, “non si accontenta di curare le ferite ma cerca di affrontare le cause”. Rifiutare il warfare che uccide il welfare, cioè scegliere l’obiettivo della pace come una politica, non solo come un’istanza morale; governare i processi migratori e favorire la crescita dei Paesi poveri con un giubilare condono dei debiti; battersi per la piena e buona occupazione anche con scelte di riduzione dell’orario di lavoro; imporre una patrimoniale sulle grandi fortune, talvolta del tutto indipendenti dai meriti, per sostenere l’universalità dei diritti sociali; riconsegnare agli elettori la scelta dei propri rappresentanti superando l’esproprio elitario praticato da leaders ingordi di partiti vuoti; battersi per un europeismo sociale che presenti il volto di “un altro Occidente” che non pretenda di uniformare e dominare unilateralmente il mondo ma che sia capace di far rivivere le proprie storiche istanze di libertà, uguaglianza e fraternità come valori fondanti dei diritti universali delle donne e degli uomini e di un rapporto non predatorio con animali e natura.
Nella ambigua enfasi sulla grandezza dell’Occidente si finisce dolosamente o colposamente per dimenticare il patrimonio di culture democratiche, riformatrici e progressive capaci di interagire con quanti in ogni parte del mondo si battono per la giustizia. A questo giacimento può ancora attingere un impegno politico cristianamente ispirato e vissuto nella compagnia di donne e uomini che si riconoscono laicamente in questo orizzonte ideale e politico.
Poi c’è la Chiesa in quanto tale. Ha scritto il vescovo di Cassano all’Jonio Francesco Savino: “Noi non facciamo politica ma la fede nel Vangelo e nella Costituzione non ci fa tacere di fronte a ciò che può generare maggiore povertà e disuguaglianza”. A questo compito la Chiesa non può abdicare per venire a patti più vantaggiosi. Non può lasciare solo il Papa e qualche Vescovo a gridare nel deserto. Nel suo foro interno la Chiesa sa che il suo vero “vantaggio” sta nel riconoscere il suo unico Signore in chi ha fame, nel forestiero, nel povero, nell’ammalato, nel carcerato anche correndo il rischio di essere derisa. Pronta, per dirla con don Milani, a stare col Pipetta dei giorni nostri (l’operaio malpagato, il precario ecc.) e pronta a tradirlo quando rinnegherà i propri ideali di giustizia. E proprio il Priore di Barbiana indicava la via della politica per “sortire insieme”, superare le chiusure egoistiche e individualistiche, organizzare la speranza.
La speranza non è facile, richiede intelligenza e coraggio che ci portino a individuare strade praticabili e parole di giustizia che si fanno strade. Un lavoro tenace. La capacità di ricominciare sempre sapendo tenere insieme cose antiche e cose nuove, perché nel desiderio di giustizia rivive sempre anche il sogno di coloro che non sono riusciti a ottenerla. Mettersi in gioco ancora, quando molto sembra volgere al peggio, è necessario e urgente per quanti credono che si può vivere in un modo decente se tutti vivono in modo decente. E lo è ancor più per chi attende che si compia la promessa del Regno.