Giovani: una scelta educativa e politica

Un giovane salta tra due montagne, una con la scritta "Future" e una con la scritta "past"

Siamo abituati a parlare troppo di giovani e troppo poco con i giovani. Due bolle che non comunicano, alimentano reciprocamente pregiudizi e chiudono ogni spazio di dialogo. «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo» scriveva Ludwig Wittgenstein.

Dobbiamo sintonizzarci sulle loro frequenze per capire la portata della domanda di cambiamento che ci pongono, una domanda plurale che oggi più che mai coincide con le questioni sociali emergenti e che investono l’intera comunità. Come ricorda Daniele Marini, «Le giovani generazioni sono un caleidoscopio di condizioni, non sono rappresentabili come un soggetto sociale unitario, ma si esprimono con una pluralità di identità. Riusciamo a comprendere i loro orientamenti se li collochiamo nella contemporaneità che vivono, radicalmente diversa da quella che hanno sperimentato le precedenti generazioni» (“Il posto del lavoro. La rivoluzione dei valori della GenZ” Daniele Marini e Irene Lovato Menin – Il Sole 24 Ore).

PEDAGOGIA DELLA FRAGILITÀ

La fragilità delle persone e soprattutto dei più giovani è il tratto distintivo della nostra epoca. E le crisi acuiscono questo tratto. Le giovani generazioni sono quelle che di più hanno pagato gli effetti post pandemici, un periodo in cui amicizie, relazioni e passioni sono finite in lockdown, aggravando un fenomeno già presente che vede nell’altro qualcuno dal quale stare alla larga – per evitare i contagi – e non un alleato con cui produrre benessere. Un isolamento generato anche da un uso patologico delle tecnologie che ha ridotto la capacità di attenzione dei ragazzi, abituati a scrollare compulsivamente gli schermi degli smartphone, e rifugiarsi in relazioni virtuali rassicuranti piuttosto che aprirsi a quelle faccia a faccia che chiedono un’esposizione diretta all’altro e perciò rischiosa. I social network peraltro offrono modelli di successo su cui i giovani misurano la loro reputazione sociale con il rischio tuttavia di raccogliere soltanto frustrazione e senso di inadeguatezza, quando non maturano sentimenti di invidia e rabbia.

Eppure, la fragilità è una grande occasione educativa, è la via che ci fa sperimentare il limite, la nostra finitudine, ed è perciò la condizione dell’apertura all’altro come reciproco riconoscimento. Occorre allora ripartire dalla pedagogia della fragilità, per dirla con Don Virginio Colmegna, «che ci pone davanti al senso del limite che si fa beffa di ogni delirio di onnipotenza che nasce dall’individualismo dei nostri tempi» riscoprendo la bellezza della logica cooperativa per superare la deriva competitiva che ancora va per la maggiore.

Un’ulteriore conferma ci viene dal “Rapporto Giovani 2024” dell’Istituto Toniolo, che ci ricorda come «Focalizzandosi sulle fragilità educative, Openpolis e Con i Bambini (2023) utilizzano i dati Invalsi per comparare la quota di studenti che non raggiungono livelli di competenza adeguati in alcune materie (dispersione implicita) e la percentuale di giovani che non studiano e non lavorano. Nelle province italiane dove sono più bassi i livelli di apprendimento fra i giovani, si riscontrano anche le più alte percentuali di Neet. (…) I valori inerenti alla dispersione implicita dicono come le coorti colpite dalla perdita di apprendimento verificatasi nel periodo pandemico e post-pandemico potrebbero essere un sottogruppo potenzialmente più vulnerabile nel periodo della transizione scuola lavoro. (…) È necessario continuare a monitorare al fine di poter indirizzare eventuali interventi di contrasto alla dispersione in maniera efficace». Per queste ragioni andrebbero immaginati percorsi educativi personalizzati per i ragazzi “a rischio” per connetterli in maniera virtuosa al mondo del lavoro partendo dalle esperienze di successo della formazione professionale.

I giovani sono in tal senso in enorme credito con gli adulti che, ora, hanno il dovere di accompagnarli nell’attraversata del deserto, aiutandoli a immaginare il futuro che dovranno abitare perché «i giovani vorrebbero essere parte attiva di un progetto di paese in cui possano sentirsi riconosciuti e valorizzati, essere in un contesto che li mette nelle condizioni di dare il meglio di sè» come spiega il demografo Alessandro Rosina in un’intervista su ilsussidiario.net lo scorso 27 ottobre. Un sostegno, quello degli adulti, in molti casi complicato, in altri addirittura improbabile, vista la crisi di autorità che si registra nelle generazioni dei cosiddetti boomers, e contestualmente nelle difficoltà mostrate da quelle che una volta venivano considerate grandi agenzie educative.

IMPRIGIONATI NEL PRESENTE

Alessandro Baricco nel suo libro The Game racconta il legame tra la rivoluzione culturale e tecnologica che spiega le contraddizioni dei nostri tempi, dove la velocità ha avuto la meglio sulla riflessione e la superficialità sulla profondità. Tutti gli strumenti e i dispositivi tecnologici hanno contribuito a tenere conoscenza e informazione in superficie, condizione che assicura velocità. In quest’ottica, la verità, per essere tale, e a prescindere dai fatti, deve arrivare subito, senza troppi dettagli, ostacoli e discussioni. Mentre invece ogni verità prevede un percorso di dialogo e confronto tra differenze, quindi una relazione, e quella lentezza che possa assicurare un approfondimento, anche quando queste condizioni entrino in conflitto con la velocità che la società cosiddetta della comunicazione ci impone.

È questa velocità che ci intrappola nel tempo dell’istante. Concentrati, come siamo, a vivere il qui e ora, tutto ciò che è lontano, tutto ciò che è futuro, sembra non esistere. Se rimaniamo intrappolati nell’istante che viviamo, non c’è spazio per il futuro e quindi per il progettare qualcosa di inedito e di diverso dal già dato. È forse questa una possibile chiave per spiegare (in parte) il calo demografico. I figli sono la nostra naturale proiezione nel futuro. Se non vediamo il futuro, non ci sarà spazio per i figli e non ci sarà interesse per il futuro stesso. Un perfetto circolo vizioso.

A maggior ragione quando il futuro è così incerto a causa di sconvolgimenti climatici e guerre. Angelo Righetti, psichiatra, già collaboratore di Franco Basaglia, poco tempo fa mi faceva un ragionamento interessante su questo tema: «il sistema economico-sociale che caratterizza la nostra epoca, quello neoliberista, punta alla massimizzazione dei guadagni, al tutto e subito. E qual è il modo migliore per capitalizzare oggi? Spegnere qualsiasi idea di futuro. Ti sei mai domandato perché mai alcune potenze mondiali hanno un quantitativo di bombe atomiche capaci di distruggere il mondo svariate volte? Forse perché devono convincerci che non può esserci futuro e, quindi, bisogna mettere mano al portafogli, ora! I figli sono stati trasformati in costi. Non sono più un investimento che, invece, contiene in sé un’idea di futuro. Per questo, in ogni ambito, dobbiamo spostare il concetto da costo a investimento». Una provocazione? Forse, ma certamente l’idea di futuro tra i giovani è un po’ sbiadita. La società deve entrare dunque nell’ordine di idee di considerare i giovani il nostro miglior investimento ma, a quanto emerge ad esempio nel mercato del lavoro, i giovani spesso decidono di emigrare in altri Paesi visto il trattamento scadente che gli viene riservato in Italia. Centinaia di migliaia di giovani hanno nell’ultimo decennio lasciato l’Italia per altri lidi, e oggi si assiste ad una fortissima mobilità nel lavoro alimentata proprio dalle giovani generazioni alla ricerca di una collocazione professionale soddisfacente, non solo dal punto di vista della retribuzione, ma soprattutto del riconoscimento professionale e della possibilità di svolgere un percorso che li faccia crescere come lavoratori e come persone.

I PROCESSI DI APPRENDIMENTO E L’INNOVAZIONE DIDATTICA

Anche la scuola e le agenzie formative e educative devono cambiare rotta. Il modo di apprendere dei ragazzi è cambiato radicalmente. È quindi impensabile affrontare anche questo scenario con le modalità di una volta. Lezioni frontali e strumenti obsoleti sono la gabbia che imprigiona i giovani che reagiscono fuggendo, come da sempre fa l’uomo davanti alle costrizioni. La soluzione non può essere quella di liberarsi dalla scuola ma liberare le energie dei giovani nella scuola, utilizzando modelli didattici innovativi, capaci di puntare su partecipazione, autonomia e responsabilità, trasformando la loro attitudine alle tecnologie in uno straordinario alleato per l’apprendimento. La formazione professionale, in particolare, con il suo modello flessibile, sta dando un grande contributo in termini di innovazione didattica. Chiara Panciroli e Pier Cesare Rivoltella, nel loro libro “Pedagogia Algoritmica”, parlano di tre articolazioni: educare con l’Intelligenza Artificiale, per favorire la costruzione di un apprendimento adattivo che garantisce un tutoraggio personalizzato; educare l’Intelligenza Artificiale, creando le basi perché si comporti bene e operi eticamente; educare all’Intelligenza Artificiale, per rispettare la necessità di usare la propria testa, lo sviluppo di consapevolezza critica, la maturazione di comportamenti di cittadinanza digitale attenta.

Bisogna avere il coraggio di rompere questo schema per sperimentare l’inedito, come ha detto bene lo scorso 15 ottobre lo psicologo Ugo Morelli, in un’intervista a Il Fatto Quotidiano: «Siamo concentrati a creare competenze basate su un apprendimento del presente, ma questo è esattamente il problema, perché se apprendiamo all’interno della cornice dominante e vigente apprendiamo a confermare l’esistente. Oggi però il problema è apprendere ad apprendere, ovvero rompere la cornice, gli schemi mentali, perché quel paradigma e quella cornice sono falliti. In altre parole, abbiamo un grandissimo bisogno non di diventare più competenti, se essere competenti vuol dire esserlo dentro la cornice esistente, ma di diventare più competenti a mettere in discussioni le cornici».

E chi può rompere queste cornici se non i giovani? Una questione urgente proprio oggi che è in atto una transizione culturale, foriera di grossi cambiamenti, «che ha nel lavoro il suo epicentro e la sua declinazione più evidente. (…) Il lavoro diventa leggero soprattutto per peso e il valore simbolico che va occupando nell’orizzonte delle persone, soprattutto delle giovani generazioni» come scrive Daniele Marini.

Il Covid con le sue conseguenze sociali ha fatto emergere una nuova scala di priorità in cui il lavoro viene dopo il tempo libero, le relazioni e l’attenzione all’ambiente. Sta emergendo chiaramente l’esigenza di elaborare un nuovo senso del lavoro perché «finché rimarrà catturata nel paradigma culturale del pensiero ortodosso dominante, la questione del lavoro non troverà nuove vie e possibilità di soluzione, e anche il discorso pubblico continuerà a concentrarsi, per lo più in maniera nominalistica e retorica, su questa o quella leva da azionare, senza che ne scaturiscano risultati significativi per cambiare lo statu quo. Allargare l’orizzonte culturale, anzi sceglierne uno alternativo, è più che mai necessario per assumere la complessità della questione e tentare di uscire da un’impasse che si sta facendo pesante e drammatica per tante persone in carne e ossa, e a ogni latitudine, a maggior ragione in un contesto post pandemico e segnato dalla guerra, che continua a modificare anche gli scenari economici e le istituzioni» come scrivevo con Rosario Iaccarino su passionelinguaggi.it nel maggio 2022.

Occorre sostenere e far crescere la libertà positiva, offrendo a ciascuno l’opportunità di esercitare il proprio talento e adoperare le sue dotazioni per esprimere se stesso ai fini dell’individuazione personale e del riconoscimento sociale. E le imprese sono chiamate a considerare tutto ciò se vogliono essere attraenti soprattutto per i giovani che stanno diventando una risorsa scarsa acquisendo, quindi, valore sul mercato.

Occuparci dei giovani come scelta educativa e politica, non vuol dire soltanto strapparli alla rassegnazione o impedire che emigrino, ma aprire quegli spazi indebitamente occupati dagli adulti che permettano loro di mettersi alla prova e inaugurare una nuova stagione di protagonismo. Occuparsi della felicità dei giovani, vuol dire accogliere la sfida di mettere al mondo nuove forme di vita.