L'editoriale
La liberazione della teologia
“Perché in un continente cattolico c’è tanta povertà e ingiustizia?” Gustavo Gutierrez, morto il 22 ottobre all’età di 96 anni, partì da questa domanda inquietante per costruire con tanti altri, presbiteri e laici, il percorso che condusse a quella rilettura della Parola e della realtà che è andata sotto il nome di teologia della liberazione, titolo peraltro del più noto dei tanti testi di padre Gustavo.
Gutierrez nacque a Lima, la capitale del Perù l’8 Giugno del 1928 in una famiglia povera circondata da una miseria estrema, per cinque anni studiò medicina e infine scelse la strada del sacerdozio, che lo portò ad intraprendere studi filosofici e teologici da Santiago del Cile a Lovanio, da Lione a Roma. La sua intera esistenza si è caratterizzata per l’intreccio tra attività pastorale e studi teologici. Il tutto vissuto condividendo la condizione dei quartieri più poveri della sua città e accompagnando la straordinaria fioritura delle comunità ecclesiali di base. Nel 1999 entrò nell’ordine domenicano, a 71 anni. Nei suoi scritti e nelle sue conferenze due grandi domenicani sono presenze costanti: Bartolomé de Las Casas – che dell’istituto omonimo fu ispiratore e presidente – e Marie Dominique Chenu.
Certamente la sua voce ha segnato, pur in una dialettica forte, le Conferenze generali dell’episcopato dell’America Latina di Medellin (1968), di Puebla (1979) e di Aparecida (2007) che hanno affrontato il tema, meglio, lo scandalo della povertà e hanno assunto l’idea, nata nel contesto della teologia della liberazione, della scelta preferenziale per i poveri. Nel 1975 con l’Esortazione Apostolica “Evangelii nuntiandi” Paolo VI intervenne richiamando il rischio di una riduzione del messaggio evangelico alla dimensione immanente e tuttavia assumendo come istanza autenticamente cristiana quella di combattere l’ingiustizia, l’emarginazione, la miseria: evangelizzazione e promozione umana. Insomma non si può rinunciare all’annuncio del Regno che è il proprium dell’evangelizzazione ma esso implica anche l’assunzione coraggiosa della liberazione dalla povertà, con metodi pacifici, come dimensione fondamentale di una fede autentica.
È ben noto come anche Gustavo Gutierrez sia stato posto sotto stretta sorveglianza dai sacri palazzi. Il suo atteggiamento fu tuttavia sempre e irriducibilmente dialogico anche se, come ha affermato sul filo dell’ironia, “spesso non mi sono accorto che il dialogo era già stato avviato!”.
La teologia della liberazione è stata anche una liberazione della teologia. Un pensare Dio dentro contesti sociali e culturali assai diversi da quelli in cui la teologia tradizionale era nata e si era sviluppata, una teologia incarnata. Trovare il modo adeguato ed autentico di “scrivere una lettera d’amore a Dio, alla Chiesa e al popolo” per usare la terminologia di padre Gustavo. Come dire al popolo, soprattutto quello sofferente ed oppresso, Dio ti ama? Questa è la domanda a cui la teologia della liberazione ha cercato di trovare risposte. Certo risposte legate ad un determinato contesto ma la cui forza ha avuto un impatto formidabile su tutta la Chiesa. Una rilettura vissuta del Vangelo a partire dalla sofferenza e dalla povertà. Questo è il punto d’Archimede dal quale risollevare la fede cristiana nella sua radicalità. Come la teologia femminista la teologia della liberazione solleva questioni decisive che non riguardano solo l’America Latina al pari del fatto che la prima non parla solo alle donne ma all’intera vita ecclesiale. Questa dinamica tra contestualità e universalità è sempre un elemento decisivo, sta dentro la logica o il paradosso della pentecoste.
Dunque la scelta preferenziale per i poveri è l’asse intorno a cui tutto ruota. Certo l’amore di Dio resta universale ma gli ultimi sono i preferiti, gli ultimi sono i primi. “Dire soltanto i poveri sono importanti non sarebbe cristiano ma anche dire metto tutti sullo stesso piano non lo sarebbe”. Attenzione, qui c’è un punto significativo della posizione di Gutierrez: l’opzione per i poveri e per gli oppressi non è primariamente di carattere sociale o di compassione umana, anche se queste ragioni sono importanti e valide come è importante l’analisi anche di impronta marxista delle cause dell’ingiustizia sociale, ma in quanto cristiani l’opzione per i poveri si fonda nel Dio della nostra fede, è un’opzione teocentrica e profetica. È il percorrere la stessa via di Gesù.
Ma chi sono i poveri? Padre Gustavo usa una definizione assai forte: i poveri sono gli insignificanti, coloro che non hanno diritti e spesso non hanno diritto ad avere diritti. Per questo bisogna essere attenti a non avere la presunzione, nascosta nell’involucro dell’umiltà, di identificarsi con essi. Io non sono un insignificante, dice Gutierrez e neanche i gesuiti martirizzati (avete mai visto un gesuita insignificante? dirà). Per cui la scelta di una chiesa povera, di una vita vissuta in solidarietà con i poveri, deve essere una scelta contro la povertà, per combatterla, per promuovere giustizia, dignità ed uguaglianza. “La povertà cristiana è protesta contro la povertà”.
“Non dobbiamo essere la voce di chi non ha voce, ma dare voce a chi non l’ha”. È molto interessante la lettura che Gutierrez fa dell’episodio di Bartimeo per dimostrare l’atteggiamento di Gesù che lo chiama ad alzarsi, questo insignificante, senza nome, semplicemente figlio di Timeo, a parlare, cosa vuoi? E infine a vedere con occhi nuovi per effetto della propria fede, la tua fede ti ha salvato.
Come non vedere qui l’intreccio di diverse vicende, anche in continenti lontani ma animate dallo stesso spirito di liberazione dall’insignificanza: dalla pedagogia degli oppressi di Paulo Freire in Brasile che ha come obiettivo quello di costruire un processo di coscientizzazione a partire dal protagonismo degli esclusi, perché prendano la parola e la inventino anche, all’esperienza di don Lorenzo Milani con quei ragazzi barbianesi a cui insegnare ad uscire dalla rassegnazione ed assumere la consapevolezza dei propri diritti, affermandoli con la “chiave fatata che apre ogni porta”: la parola.
Tutta la lunga parabola, ancor oggi viva, sia pur carsica, di questo percorso di affermazione della dignità umana, di sante lotte contro la miseria e per la giustizia si è presentata teologicamente come un’ermeneutica della speranza, come un rendere credibilmente ragione della nostra speranza.
Scrive padre Gustavo: “La sua ragione ultima si trova nel Dio vivo e tenero che si piega sul dolore (…) Di Lui e di questa realtà parlava Cesar Vallejo quando scriveva: “E Dio spaventato ci preme, il polso, grave, muto, e come un padre alla sua piccola, appena, ma appena-socchiude il sanguinante cotone, e fra le dita prende la speranza”.
Come ogni pensiero ed ogni pratica la teologia della liberazione ha vissuto tempi diversi, è stata ed è animata da persone ed esperienze differenti, si è radicata in modo più o meno significativo nei vari contesti ma per tanti è stata ed è un soffio liberante e impegnativo, che chiama a responsabilità anche in questo tempo saturo di veleni bellici e carico di vecchie e nuove povertà. Ce lo ricorda Amaro col disegno di copertina.