A scuola si impara la Storia?

Si può capire la portata della guerra tra Russia ed Ucraina senza conoscere le conseguenze geopolitiche della disgregazione dell’Unione Sovietica? Si possono capire la tragedia di Gaza e le difficoltà di soluzione del conflitto in Medio Oriente restando all’oscuro delle cause della nascita dello Stato di Israele? Perfino battersi per la parità e la libertà femminile richiede molto di più della sola denuncia della cultura patriarcale, la consapevolezza storica della più grande rivoluzione del Novecento, dell’evoluzione delle normative nazionali e sovranazionali sui diritti, delle cause delle reazioni avverse da noi e in altre aree del mondo. Su questi e numerosissimi altri problemi che fanno il nostro presente si hanno opinioni e magari ci si schiera anche in piazza e nei social, ma sentimenti e passioni non bastano per quella cittadinanza attiva che è condizione essenziale di vita della democrazia. Che postula non solo il diritto di tutti ad avere e manifestare ogni opinione, ma anche il dovere di farsene di informate e consapevoli. È certo che i giovani impegnati in percorsi scolastici fino alla maggiore età e anche oltre dovrebbero uscirne avendo imparato come è fatto e perché il mondo in cui vivono. La storia non sarà maestra di vita, ma non si può capire, e tanto meno cambiare lo stato delle cose se non se ne conoscono le radici.

Ma di come la storia si impara o non si impara a scuola – i fatti e le cause, le fonti della storiografia, l’habitus al sempre invocato “spirito critico” – pochi si occupano, nel mondo scolastico e nell’opinione pubblica. Anche Invalsi, l’agenzia nazionale di rilevazione dei risultati dell’apprendimento, si concentra da sempre su altro, la lingua italiana, la matematica, le scienze, l’inglese. Come se la scarsa motivazione degli studenti (sono pochi, si sa, quelli che la studiano con interesse, e pochissimi quelli che alla maturità scelgono il tema “di storia”) fosse priva di conseguenze negative. Come se ignorare i mille fili che, tra continuità e rotture, saldano il passato con il presente, e il nostro vivere con quello degli altri, fosse cosa del tutto secondaria. È in questo quadro che molto, forse troppo, ci si aspetta dall’educazione civica nelle aule scolastiche. Che però, senza la bussola della consapevolezza storica, rischia di ridursi a retorica dei buoni sentimenti, a prescrizione moraleggiante di atteggiamenti e comportamenti disarmata rispetto alle insidie della semplificazione e della polarizzazione delle opinioni, delle faziosità e delle fake news del web, del conformismo degli algoritmi. C’è anche questo aspetto da considerare nelle nuove Linee guida del ministro Valditara, e prima ancora nella legge del 2019 sull’educazione civica, non solo le inquietanti curvature ideologiche e le vistose forzature identitarie imposte dalla destra-destra che ci governa. Il limite più grave dell’insegnamento scolastico della storia è che tredici anni di scuola, tra primo e secondo ciclo, non assicurano affatto che quei mille fili che saldano il presente al passato vengano in chiaro, per la banale ragione che la narrazione storica ai tempi più prossimi non ci arriva quasi mai. E se lo fa è quasi sempre per cenni insufficienti, troppo tardi, con l’affanno e l’approssimazione della notte prima degli esami. Senza contare che solo rarissimamente, e anche questo è un segno, la storia viene inclusa tra le materie della maturità. L’effetto, in termini di incomprensione del significato di quel sapere, e quindi di demotivazione degli studenti all’apprendimento, è disastroso. L’ha dichiarato tempo fa anche Valditara “Purtroppo spesso nell’attività didattica non si riesce a concludere il programma di storia e non si riescono a toccare gli eventi della storia contemporanea”. Giusto, ma allora che si fa?

Tre volte gli assiri e i babilonesi, ma niente dopo il 1945

È un dato di fatto che gli studenti italiani sono intrappolati in un insegnamento storico ristretto in termini sia spaziali che temporali. La trappola spaziale, che potrebbe diventare un imbuto ancora più stretto e soffocante se andrà in porto l’intenzione del ministro di rivedere le Indicazioni del primo e del secondo ciclo per mettere al centro la storia “della nazione” valorizzando “l’italianità” (il titolo della commissione che se ne occupa è “Insegnare l’Italia”, l’obiettivo è “ricostruire un immaginario positivo dell’Italia nel mondo oltre la grande truffa del pensiero globale”), è fatta di uno sguardo per lo più provinciale, troppo focalizzato sulle vicende storiche italiane e troppo poco sul contesto europeo ed extraeuropeo. Un limite, che è anche di altre materie, pensiamo al canone nazionale della letteratura, non più sostenibile a fronte della ricchezza e complessità delle interazioni culturali, economiche, politiche di portata globale in atto da molto tempo e delle trasformazioni indotte dai grandi flussi migratori in entrata e in uscita. La trappola temporale, che deriva da una tradizionale impostazione storicistica che ambisce a dar conto per via cronologica della successione delle civiltà, dà troppo spazio al passato anche remotissimo finendo col sacrificare le vicende più recenti. Tanto più che, come se fossimo ancora ai tempi in cui la maggior parte della popolazione non proseguiva gli studi fino al diploma, la Mesopotamia degli Assiri e dei Babilonesi, l’Egitto dei Faraoni, i Greci e i Romani e così via attraverso i secoli si devono studiare tre volte, con progressivi ed estenuanti “approfondimenti”, prima nella primaria, poi nella media, infine nella superiore. Il risultato è che nell’ultima classe della superiore si arriva, se va bene, al 1945. Come se la fine del secondo conflitto mondiale fosse una sorta di fine della “grande storia”, di epilogo del secolo, e ciò che è avvenuto dopo fosse materia minore (o forse troppo calda – troppo “politica” – per potere diventare materia di insegnamento?). Intendiamoci, non ci sono norme ad impedire che si vada oltre (al contrario, vige ancora un vecchio decreto del Ministro Berlinguer del 1997 sul Novecento come parte integrante del curricolo), ma la cesoia invisibile resta. È certo fondamentale, chi può negarlo, che usciti da scuola si sappia molto del granducato di Toscana e di Pio V, e magari anche dei confitti tra gli Stati italiani tra il Duecento e il Quattrocento, ma se poi non si sa niente di Mandela, di Aldo Moro, di Margaret Thatcher, di Gorbačëv, di papa Wojtyla, di Kohl, dell’attentato alle Torri e della guerra del Golfo qualche problema c’é.

L’urgenza di un cambio di passo

Pesano certamente il poco tempo scolastico dedicato (vari ministri si sono esercitati a comprimerlo, in nome del contenimento della spesa pubblica o per un’idea della contemporaneità incarnata esclusivamente nel digitale e nell’inglese: chi non ricorda le tre I di Berlusconi e della sua ministra Moratti, Inglese Informatica Impresa?), ma anche altri importanti fattori. Ne discutono le associazioni degli insegnanti di storia, con proposte di vario tipo. Alcune ispirate alle sperimentazioni degli anni Settanta che integravano lungo tutto il curricolo della scuola superiore l’approccio storicistico-cronologico con riferimenti strutturati alla storia contemporanea, altre all’insegnamento per macrotemi trasversali adottato in parte della scuola anglosassone, tutte rivendicando la libertà di sintetizzare fortemente, o perfino tralasciare alcune parti dei programmi tradizionali (che tecnicamente, si sa, nella scuola dell’autonomia non ci sono ma che vengono immancabilmente riproposti dai manuali). Recentemente è partita anche una raccolta di firme promossa da storici per dedicare l’ultima classe degli istituti superiori alla storia contemporanea dal 1945 ad oggi. L’urgenza di un cambio di passo c’e’. Studi e ricerche locali e nazionali dicono che sono troppi i diplomati che, nel Paese che ha vissuto decenni di terrorismi di diverso colore, ritengono che il terrorismo sia solo quello islamico, che balbettano sull’Unione Europea e sull’ONU, che pasticciano sulla separazione e il contrappeso dei poteri nelle democrazie, che non sanno cos’è uno Stato Federale, che non riescono ad immaginare quale delle vicende storiche degli ultimi anni entrerà nei libri di storia. Ma è improbabile che un sostanziale e diffuso rinnovamento della didattica della storia possa svilupparsi solo dal basso. Uno dei problemi è che non esiste, nella scuola italiana, l’insegnante di storia, formato e specializzato in questa materia. L’insegnamento è sempre accoppiato ad altri, a filosofia, a lingua e letteratura italiana, a italiano e geografia, perfino a latino, ed è spesso vissuto, dagli stessi insegnanti, come materia secondaria.

Il presente che imbarazza

La questione più seria è però un’altra. Anni fa fu il sociologo Alessandro Cavalli, che ha dedicato molti studi al ruolo che la scuola dovrebbe giocare nella formazione civile degli italiani, a mettere in evidenza un aspetto di cui solitamente si preferisce non parlare. Si tratta del forte e diffuso imbarazzo culturale e professionale di gran parte degli insegnanti a misurarsi con la materia calda del presente o del passato più prossimo per il timore di essere visti come insegnanti “politicizzati” che plagiano gli studenti. È un timore, delle proteste di qualche genitore o di interventi ispettivi o sanzionatori dell’amministrazione, che di questi tempi si acuendo. La destra tira sempre fuori la tiritera della presunta “egemonia culturale della sinistra” anche nella scuola, con gli insegnanti “compagni” che indottrinerebbero gli studenti oscurando le foibe oppure omettendo l’epopea della prodigiosa bonifica delle paludi, e i problemi che ci sono sempre stati di non ferire le sensibilità, di mantenere un equilibrio e un’oggettività al di sopra di ogni sospetto si stanno facendo più ingombranti: almeno tra i docenti – e sono tanti – che non hanno la competenza professionale e la preparazione culturale necessarie a misurarsi con autorevolezza con le faziosità da stadio. Intendiamoci, c’è un passato prossimo così universalmente giudicato che non imbarazza più nessuno (o quasi). Nessun problema, infatti, a prendere apertamente le distanze da Hitler e da Stalin, dai “totalitarismi del Novecento”, come fa del resto anche la nostra presidente del consiglio per poter facilmente svicolare su fascismo e postfascismo italiano. Ma è tutt’altra cosa, o per lo meno può apparire assai più scomodo affrontare altri argomenti, la storia dei partiti politici, i conflitti sociali, le migrazioni, le guerre in corso, i temi – come si usa dire “divisivi” – di portata nazionale o più vasta, in cui il rapporto tra storia e politica è o appare più ravvicinato.

Scienza e coscienza

Ma la storia è una materia speciale, che consente ed anzi impone il metodo scientifico del ricorso alle fonti, alle documentazioni, ai dati statistici, tutti strumenti largamente digitalizzati e divenuti più accessibili di un tempo. È un campo di studi e di apprendimento che si misura esplicitamente con il tema culturale ed educativo del pluralismo delle posizioni. Bisogna affrontare con le lenti della consapevolezza storica la complessità della contemporaneità senza aver paura di plagiare gli studenti: sempre dichiarando, per onestà intellettuale ed educativa (la “scienza e coscienza” di cui parla la Costituzione) i propri punti di vista. Anche perché i ragazzi delle scuole superiori non sono bambini tonti e neppure mentalmente pigri. Hanno già i loro ideali, sanno schierarsi con le vittime, scendono in piazza per salvaguardare il pianeta, sanno protestare contro le ingiustizie. Ed è proprio nella scuola che devono imparare a confrontare le proprie opinioni con quelle degli altri, ed anche a contestare a viso aperto gli insegnanti che dovessero approfittare del loro ruolo. Il pericolo è l’ignoranza, l’indifferenza, l’incapacità di costruirsi un’autonomia di pensiero, non il pluralismo, non le passioni civili e le convinzioni politiche. Non c’è del resto altra via per difendersi da semplificazioni e manipolazioni che imparare a conoscere, riflettere, confrontarsi. Un tema antico che il tempo presente rende più urgente.