Nella confusione

Illustrazione di Dianella Fabbri

O SIGNORE, poiché ho confidato in te,

fa’ che io non sia mai confuso…

sii per me una forte rocca,

una fortezza dove tu mi porti in salvo.

Tu sei la mia rocca e la mia fortezza…

Abbi pietà di me, o SIGNORE,

perché sono tribolato:

l’occhio mio, l’anima mia, le mie viscere

si consumano di dolore…

O SIGNORE, fa’ che io non sia

confuso, perché t’invoco…

Io, nel mio smarrimento, dicevo:

«Sono respinto dalla tua presenza»;

ma tu hai udito la voce delle mie

suppliche, quando ho gridato a te.

(Salmo 31)

Angelo: confuso, si dice il salmista. E confuso è anche chi legge queste parole. L’aderenza al vissuto delle parole dei Salmi, la loro impossibilità di racchiudere la realtà in un pensiero unico, di leggere con schemi ideologici la storia – quella di tutti e la propria – ha come contraccolpo inevitabile la confusione per i continui cambiamenti di scena, per una vita mobile, fuori dai cardini. E la confusione spaventa. Quando non c’è nulla di stabile ci si sente come chi è trascinato dalle onde e affonda nelle acque.

Lidia: Dio, invece, viene riconosciuto come roccia su cui il nostro piede può poggiare con sicurezza. L’amen che risuona nelle nostre preghiere e che ritroviamo alla fine dei diversi libri del Salterio, a suggellare la verità e l’affidabilità di quelle parole, alla lettera significa proprio questo: metto il mio piede sulla roccia, trovo stabilità in un Dio che è forte rocca, non mi manca il terreno sotto i piedi. Il salmista lo dice esplicitamente: tu mi hai messo i piedi in luogo favorevole. Poi, però, le sue gambe cedono: si logorano tutte le mie ossa. Per cui la confusione è massima: oltre all’incertezza esistenziale di fronte ad una vita instabile, vi è la smentita della fede, il sentirsi respinto dalla presenza divina.

Angelo: penso che occorra sottolineare questo aspetto, perché le nostre letture devote ci fanno correre troppo in fretta al lieto fine, in base al criterio che «tutti i salmi finiscono in gloria». La confusione iniziale servirebbe solo a dare risalto alla consolazione successiva. A volte è così perché prevale la rilettura degli avvenimenti a giochi fatti, una volta risolto il problema che affliggeva l’orante. Ma la bellezza di queste composizioni poetiche sta tutta nel dare voce alla totalità dell’esistenza, nel non rimuovere lo scandalo, neppure quando ci è concesso di dare voce allo stupore. Il male di vivere non è mai acqua passata: occorre farne memoria, persino quando i canti di festa vorrebbero sancire l’inopportunità di quel triste ricordo.

Lidia: che cosa ci dice questo modo di esprimersi a proposito della fede? Dalle parole del salmista sembra che la fede debba nutrirsi di affermazioni che non sono altro che invocazioni. Confessa: Tu sei la mia rocca; e invoca: sii per me una forte rocca. Lo è o lo deve diventare? L’esperienza di Dio è un «già» o un «non ancora»? O entrambe le cose, e contemporaneamente? Con Dio abbiamo una storia, fatta di tante stagioni, non per forza progressiva, esposta com’è all’interruzione della morte. Le nostre parole non possono che fotografarne un momento.

Angelo: e noi, che attingiamo le parole per dirlo nel libro dei Salmi ritroviamo la confessione di fede accanto al dubbio, la certezza di aver riposto in mani sicure le nostre vite insieme alla confusione di chi è in affanno, consumato dal dolore. È questa contemporaneità a risultare intrigante, ad interrogarci a proposito di una fede all’altezza della complessità della vita.

Lidia: ci sentiamo dimenticati e smarriti come anche accolti e pieni di speranza. E l’una e l’altra situazione sono gli ingredienti della vita. E l’una e l’altra parola sono parole del Dio vivente. Parole in cammino con noi, che prendono voce in quella congregazione di anime che ognuno di noi è. Non temiamo la pluralità dei colori stesi sulla tavolozza di un’esistenza: con tutti possiamo tingere i fili della trama della nostra storia con Dio.