L'editoriale
L’esperimento Perugia
Nel numero 5 di Rocca (1° marzo 2024) avevamo parlato dell’esperimento-Perugia con molta fiducia. Lo avevamo fatto perché ci sembrava una buona pista di lavoro per un ampio campo di forze riformatrici. Soprattutto ci apparve interessante e promettente la rottura di vecchi schemi politici, del tipo: spostati più in là, ca va sans dire verso il mitico centro, se vuoi vincere. Ma il centro è un guscio vuoto, talvolta anche pieno di vespe. Allora tocca essere estremisti? No, come si sa, sarebbe infantile. Forse bisogna definire un programma e un’anima (e la seconda è più importante del primo. Un vecchio amico socialista mi diceva trent’anni fa: ma chi vuoi che sia disposto a morire per un programma?). E poi ci vogliono persone credibili per dare volti ai programmi e all’anima. E dove li trovi? Una volta la risposta era semplice: nei partiti politici, nei partiti di massa che sono stati la spina dorsale nella prima fase della vita repubblicana. Oggi non è così. I partiti sono spesso organizzazioni rinsecchite ed autoreferenziali, nel migliore dei casi luoghi di passioni generose ma molto parziali e scarsamente radicante nel territorio. Quando chi li dirige è consapevole di questo fa scelte giuste aprendosi per genere, generazioni, competenze, esperienze a quanto di meglio emerge dalla società. Quando si capisce che il campo largo è un’idea stretta si batte la strada giusta. Oltre la politica che passa per i partiti c’è ancora politica. Le competenze ma anche le passioni e le energie che un tempo trovavi dentro i partiti o nelle loro immediate vicinanze oggi, sovente, le trovi altrove. È a questo vasto spettro di soggettività politiche che bisogna guardare. Esso chiede e può essere protagonista di una stagione nuova della politica riformatrice, paradossalmente capace di recuperare le radici e le ragioni di un passato ricco di battaglie, esperienze e conquiste fondamentali. Per questo titolammo quell’articolo di marzo “Perugia andata e ritorno”. Il ritorno era a quei valori permanenti che hanno fatto di quella città un importante punto di riferimento nazionale nella lotta per la pace e nella proposta della nonviolenza con Capitini e nella sua feconda idea del potere di tutti su cui è possibile ancora lavorare, nell’esperienza della eliminazione dell’istituzione totale del manicomio, nella costruzione di un welfare di prima qualità e così via. Questa vena profonda è quella che ha saputo interpretare la sindaca Vittoria Ferdinandi, è ciò che l’ha portata ad un successo che appariva impensabile e che non si sarebbe realizzato se si fosse ragionato con le misure consuete del cosiddetto realismo politico. Certo nella vittoria di Vittoria c’è molto di Vittoria e senza Vittoria probabilmente non ci sarebbe stata vittoria. Questo è un punto di forza ma anche un potenziale rischio. Il punto di forza è stato nella sua capacità di fare sintesi e di indicare un orizzonte che ha evitato di impantanarsi sulle quisquilie, il rischio (non il destino) in questi casi è sempre quello di chiudersi e di costruire tutto intorno a sé, per cui alla lunga rimane poco in termini di crescita collettiva e anche di ricostruzione di soggetti politici significativi. La stessa astensione, ancora molto alta, perfino a Perugia dove si è votato più che altrove, continua a parlarci di un pezzo di Paese che non ritiene che la partecipazione e la scelta politica ed elettorale siano significative per la propria vita. Persistere nella rimozione di questo crescente fenomeno sarebbe rovinoso per chi crede che la democrazia può evitare il logoramento solo attraverso la tenuta della partecipazione popolare e uno spazio pubblico vissuto comunitariamente.
C’è da dire che il centrosinistra ha ottenuto successi rilevanti in ogni parte d’Italia e che ciò è avvenuto, per così dire, con schemi di gioco diversi. L’esperienza che abbiamo preso in esame però, sembra raccontarci più di altre una via praticabile anche a livello nazionale: aprirsi ad esperienze sociali capaci di caricare di concretezza e di valori il terreno della politica; coniugare la radicalità degli ideali di uguaglianza e di libertà con la pratica del confronto aperto senza irrigidimenti ideologici; mettere in pratica un rapporto diretto con le cittadine e i cittadini nei territori e nei luoghi di vita e di lavoro; tenere insieme la difesa e l’affermazione dei diritti sociali e di quelli civili; porre al centro la ricostruzione di una comunità intraprendente tuttavia a partire da quella che un grande teologo definiva “l’autorità di coloro che soffrono”. In un certo senso tutto questo delinea un percorso nuovo con un cuore antico, che le forze democratiche e riformatrici, verrebbe di chiamarle, costituzionalmente orientate, farebbero bene a seguire. Dentro un percorso di questo tipo perdono peso e mordente anche le pressioni corporative e i gruppi di interesse immediati e la dimensione della politica tende a riappropriarsi del ruolo alto di governo orientato al bene comune e all’interesse generale, nel cui ambito possono trovare legittimità e limite tutti gli interessi particolari. Già negli ultimi numeri, ma in modo crescente nei prossimi, la nostra rivista intende aprire un dibattito e un approfondimento, sulle riforme costituzionali e istituzionali che costituiranno il terreno di un decisivo confronto politico e culturale: il cosiddetto premierato, l’autonomia differenziata, la “riforma” della giustizia. Il percorso unilaterale impresso a questi grandi temi democratici, che sembra avere lo scopo di archiviare la stagione costituzionale, impone che si promuova un confronto molto ampio, una vera mobilitazione delle competenze e dell’interesse civile. In ballo ci sono la tenuta dell’equilibrio costituzionale e del bilanciamento dei poteri, l’unità nazionale e il diritto in ogni parte del Paese ad avere non solo i livelli essenziali delle prestazioni ma i livelli più unitari ed omogenei possibili, una giustizia che funzioni davvero senza intralci, condizionamenti o bavagli e con le risorse umane e tecnologiche necessarie.
Dentro questa situazione avere metà del campo di gioco non più polverizzata e paralizzata è un imperativo democratico fondamentale non solo per una parte ma per l’Italia.