Desolazione di un prof sentimentale

Per chi, come me, insegna lettere al triennio di un istituto d’istruzione superiore, gli ultimi giorni di scuola sono sempre emotivamente difficili. Non si tratta di problemi di natura burocratica, nonostante la mole di scartoffie da produrre in vista degli scrutini finali aumenti, anno dopo anno, in maniera esponenziale, rendendo il mio mestiere più simile a quello di un impiegato kafkiano sommerso da montagne di carte che a quello di un divulgatore culturale. La questione che mi turba è decisamente un’altra e riguarda l’onere della valutazione. Devo confessare che, con il passare del tempo, dare un voto agli studenti mi diviene sempre più difficile, quasi un compito improbo ed eccessivamente gravoso.

Valutare, che fatica

Di fronte ad alunni e alunne sempre meno propensi a quell’impegno che lo studio necessariamente impone, è davvero complicato valutare il grado di preparazione raggiunta con un numero. Immagino che la questione relativa a come stimare il disimpegno studentesco sia un problema che non riguarda i colleghi dei licei, i quali, probabilmente avranno altri grattacapi, ma non questo. Personalmente, invece, mi devo scontrare quotidianamente con una certa, solida e cruda resistenza allo studio che a volte getta letteralmente nello sconforto. La voce dell’uomo qualunque, quello che non sa nulla di didattica né di cosa voglia dire, oggi, insegnare qualcosa a degli adolescenti, risolve in genere la questione tirando una linea netta: chi sa, deve venire promosso, chi non sa deve essere bocciato. È la parola che si leva dalla strada, ma anche dalle colonne dei giornali e spesso che esce perfino dalle bocche dei politici; è quella che invoca la linea dura, nella convinzione che, altrimenti, chissà dove si potrebbe andare a finire. Il problema vero è che se dovessi applicare questa logica manichea ai miei studenti, ne perderei oltre la metà, con un risultato francamente inaccettabile. Di persone affette da qualunquismo pedagogico, poi, ne ho conosciute parecchie e non di rado mi è capitato di verificare che proprio coloro che si sono posti in maniera più intransigente davanti alla supposta ignoranza giovanile, invocando la forca della bocciatura, hanno spesso cambiato opinione quando si sono trovati a gestire figli adolescenti. La realtà, dunque, mi provoca diversamente, costringendomi a riflettere in maniera – se mi si consente – più raffinata. Insomma: bocciare o non bocciare non è il vero nocciolo della questione.

Lottare contro l’abbandono

Ciò che risulta più importante, infatti, non è verificare la quantità di nozioni che un determinato studente possiede, quanto piuttosto aiutarlo a comprendere che l’opzione culturale è fondamentale per la sua formazione di persona e cittadino. Il rifiuto che molti ragazzi oppongono allo studio non si risolve né con le maniere forti né, certamente, con quelle deboli e remissive, vale a dire con un buonismo ipocrita e pavido. È un atteggiamento, quello del rigetto allo studio, che va affrontato con una strategia capace di situarsi nel lungo periodo e di prevedere che lo studente non si disamori a tal punto della scuola da abbandonarla prima che una qualche forma di seduzione per la cultura lo abbia raggiunto. Per questo valutare diviene complicato, perché il primo elemento che occorre soppesare è se questo processo di educazione sia perlomeno iniziato. Parlo di “educazione” non in modo generico, ma rifacendomi proprio al senso etimologico del termine, che sottolinea la necessità di “condurre/trarre fuori” dall’adolescente quello che neppure sa di possedere, ossia curiosità, gusto, sensibilità, linguaggio, immagini, intuizioni e idee. Lo sforzo titanico di un insegnante contemporaneo, che si trovi ad agire in un contesto di istituto professionale o tecnico, sta tutto esattamente in questo spendersi per disseppellire ciò che è vivo sotto strati di indifferenza e di noia. È in quest’ottica che, alla fine di un intero anno scolastico, mi ritrovo sempre a mettere insieme quelli che, con un po’ di sano sarcasmo, definisco “cocci educativi”, per cercare di comprendere se sia possibile incollarli in qualche modo o se, al contrario, siano ormai del tutto inservibili. Devo pensare a cosa potrebbe germogliare in un dato studente o focalizzare cosa sia già fiorito in un altro, al fine di prendere delle decisioni che, contraendosi in un numero, potrebbero decretare la fine di un percorso o l’apertura verso insperati traguardi. Per questo comincio a considerare con una certa curiosità gli esperimenti pedagogici che investono sulla cancellazione del voto, per far leva su un altro livello del discorso educativo. È una questione che solleva in me mille dubbi, ma che ritengo vada la pena di essere valutata senza anteporre drastici rifiuti né facili entusiasmi, perché forse potrebbe fornire una valida strategia per comunicare con certi studenti attuali. Una strategia che sia in grado di aiutare i ragazzi a comprendere quanto la vita acquisisca sapori decisamente più intensi quando si moltiplicano gli interessi, quando si solleva lo sguardo, quando si respirano idee ossigenanti.

Formare dei cittadini

Tutto ciò appare ancora più urgente se si pensa che molti dei miei studenti non hanno una chiara consapevolezza politica e si avvicinano con sospetto al mondo delle istituzioni. Nonostante studino diritto, economia, storia e frequentino i famigerati moduli di educazione civica, molti sedicenni o diciassettenni contemporanei non hanno la minima idea di chi sia esattamente chi. Sanno, per esempio, che esiste una certa Giorgia Meloni o un certo Sergio Mattarella, ma poi, al di là dei nomi, alcuni adolescenti (ovviamente non tutti) non riescono a definirne le funzioni. Dietro questo rifiuto a confrontarsi con le sfere istituzionali, si vede in controluce una certa rassegnazione davanti ad un mondo che sembra non saper costruire orizzonti di speranza per loro. La scuola, invece, dovrebbe essere anche un luogo in cui diventa possibile far avvicinare i ragazzi alla dimensione civica, non certo per plasmarne a proprio uso e consumo le coscienze, quanto piuttosto per convincerli che occorre prendere una posizione davanti alle questioni del proprio tempo, posizioni che siano consapevoli e motivate. Stare a scuola è fondamentale per assumere un’identità civica e consapevolmente auto-determinata, non importa se affine o contraria alla mia, mentre spesso esserne sbalzati fuori coincide con una deriva anti-civica che, questa sì, spaventa.  Anche per tale motivo, dunque, sento tutta la desolazione del mondo quando devo sintetizzare questi sforzi in un numero, perché sono cosciente che quel numero può creare un nodo che rinsalda il rapporto degli allievi con la scuola o finire con il rappresentare un taglio sempre più difficilmente aggiustabile. Ma non ci sono altre formule che tengano se non quella di riflettere e investire sulla scelta che, di volta in volta e caso per caso, mi paia più corretta, nella speranza che sia quella adeguata.