Germogli di giustizia tra la pula del male

Illustrazione di Dianella Fabbri

Fammi giustizia, o SIGNORE,

perché io cammino nell’integrità…

Io non siedo in compagnia di uomini bugiardi,

non vado con gente ipocrita.

Detesto l’assemblea dei malvagi,

non vado a sedermi tra gli empi…

Non mettermi in un fascio con i peccatori,

non associarmi agli uomini sanguinari…

(Salmo 26)

Lidia: «non fare di ogni erba un fascio»: un modo di dire a noi noto, che esprime l’esigenza di distinguere situazione da situazione, senza cadere nella trappola dei giudizi sommari. Contro la notte delle vacche nere dell’indistinto, l’orante si appella al suo Dio. Il suo pensiero è molto chiaro, come anche la sua richiesta: «Non mettermi in un fascio con i peccatori, non associarmi agli uomini sanguinari» (v. 9). Potrà il Signore dell’universo differenziare il suo giudizio, salvaguardando la singolarità di ogni essere umano? Oppure, come a più riprese leggiamo nelle Scritture, il suo sguardo abbraccerà un’intera generazione, il suo giudizio si appunterà su una determinata epoca storica? Saprà ancora vedere Noè in mezzo al mondo malvagio che lo circonda?

Angelo: proverbio chiama proverbio: «l’erbavoglio non cresce neanche nel giardino del re». La domanda del salmista al suo Dio, per forza di cose, gli si ritorce contro: sei proprio sicuro di essere giusto? Non prende, forse, qui la parola una volontà impossibile, messa inesorabilmente in discussione dal principio di realtà? Un altro orante, che incontreremo più avanti, prega con parole che suonano come l’esatto opposto di quelle del nostro salmo: «non chiamare in giudizio il tuo servo, perché nessun vivente sarà trovato giusto davanti a te» (Salmo 143,2). Come si può dichiarare la propria giustizia? L’osare dirlo suona già come una smentita: sarai anche una persona retta, ma pecchi di presunzione. E proprio il domandare a Dio di non esprimere giudizi sommari rende il nostro sguardo critico nei confronti di quella giustizia a tutto tondo che l’orante rivendica per sé.

Lidia: però queste parole osa dirle a Dio, nella preghiera: non le proclama in pubblico, con l’intenzione di essere visto e lodato da altri. Possiamo discutere sulla qualità del linguaggio intimo, che ad orecchi estranei suona enfatico, non corrispondente alla realtà. In ogni caso, anche quel linguaggio ha una sua verità, in grado di comunicare un sentire profondo, che non teme la smentita, pena il venir meno dell’intimità. La grammatica della preghiera assomiglia a quella che forgia le parole degli amanti. Se poi vogliamo far risuonare questo linguaggio anche in uno spazio pubblico, se ne facciamo una trasposizione etica, allora, insieme all’impossibilità umana di essere giusti, dobbiamo ricordare che, in ogni caso, il libro dei Salmi traccia fin dall’inizio l’orizzonte della giustizia, entro il quale è chiamato a muoversi l’essere umano per sperimentare la felicità.

Angelo: è vero: le parole dell’orante sono come un calco del Salmo 1. «Io non siedo in compagnia di uomini bugiardi, non vado con gente ipocrita». Ma, nonostante questo, la felicità promessa appare lontana. Sulla scena non compare l’albero fiorito, che dà frutto. Qui c’è una persona che prende sul serio la Parola divina e che si ritrova a gridare: «fammi giustizia… liberami, abbi pietà di me». La pula degli empi continua a dettare l’ordine del giorno. E la giustizia rivendicata dal salmista mostra una punta di risentimento per l’essere costretto a muoversi entro una storia ingiusta. Nell’intimità della preghiera entra la storia, con le sue contraddizioni. E allora la preghiera diviene spazio di lamento e anche di sfogo. Oltre che di interrogazione: Dio ha occhi per scrutare il mio cuore? E la mia vita si lascia plasmare dalla giustizia desiderata?

Lidia: lamento, sfogo e richiesta di aiuto. L’orante vuole che Dio non lo associ ai malvagi, che riconosca il suo agire differente da quello degli empi perché, in fondo, sa che comportarsi bene non è affatto facile e ha un costo: quello di rinunciare alla fama, alle lusinghe, ai regali che corrompono e, insieme, gratificano. Il male non è solo orrore. Il potere, il consenso, il successo rischiano di sedurre anche chi ha scelto di distinguersi dai malvagi per camminare con Dio. Ecco che la preghiera dell’orante – «fammi giustizia o Dio» – non chiama solo in difesa della propria causa contro i malvagi, ma invoca la forza per resistere alla tentazione di cambiare strada e lasciarsi prendere nel laccio dorato dei malvagi. Il male ci tenta; tenta persino chi ha scelto di rimanere unito al suo Dio.

Angelo: dunque, è come se il salmista chiedesse al suo Signore: non farmi cadere nella tentazione di desiderare ciò che non è bene, ma liberami dalla fascinazione di quel male che mi fa desiderare di ricercare la felicità nel fascio della pula piuttosto che nel fragile virgulto di giustizia, nel germoglio che custodisce la promessa di un futuro albero.