L’abbandono

Illustrazione di Dianella Fabbri

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?…
Sì, tu m’hai tratto dal grembo materno;
m’hai fatto riposare fiducioso sulle mammelle di mia madre.
A te fui affidato fin dalla mia nascita.
Non allontanarti da me…

(Salmo 22)

Angelo: esiste un’esperienza più drammatica dell’abbandono? Come l’aria noi tutti abbiamo bisogno di essere riconosciuti. Se non c’è nessuno ad accogliermi, a dire il mio nome, allora la vita si spegne. Nella sbornia narcisista del bastare a se stessi, nel delirio di onnipotenza di chi presume di poter tenere tutto sotto controllo, abbiamo perso di vista l’importanza del riconoscimento. Eppure, anche chi si ritiene autosufficiente ricerca lo sguardo altrui, l’approvazione pubblica. Perché, prima ancora di decidere per che cosa vivere, bisogna fare i conti col comune bisogno di essere riconosciuti e non abbandonati a morte certa. La Bibbia osa narrare il caso limite del riconoscimento mancato persino dalle figure più prossime, quelle a cui si è legati visceralmente: Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto (Salmo 27,10). Ma anche in quella situazione estrema interviene Dio a porre in atto il riconoscimento necessario. Nel nostro salmo, invece, Dio abbandona.

Lidia: se non fosse per quella maledetta abitudine, che dimezza la sensibilità e toglie la sorpresa, dando tutto per risaputo e scontato, l’attacco del nostro salmo risuonerebbe nelle nostre orecchie come una bestemmia. Non è la radicale messa in discussione del nome stesso di Dio, Colui che c’è, il Dio-con-noi? Eppure, proprio questa esperienza di abbandono, che ci appare come il contrario della fede, segna non solo la vicenda del salmista ma anche le nostre storie. Quelle drammatiche, che attraversano le notti oscure e precipitano negli inferi, e quelle più ordinarie, che si percepiscono in balia del caso o di un destino cieco. È vero che abbiamo bisogno di essere riconosciuti come dell’aria; ma molti di noi sperimentano momenti in cui il respiro manca, situazioni in cui ci si sente soli, abbandonati, spaesati in un mondo che non sentiamo più nostro.

Angelo: partiamo da qui, proprio come fa il salmo. Dal prendere atto che la vita ci mette di fronte a scenari in cui bisogni, desideri e promesse sono disattese. E anche Dio è assente. Proviamo a far tacere la volontà di assumerci il compito di difendere Dio, quell’arrampicarci sui vetri che insiste ad affermare che, in verità, Dio non ci abbandona mai, che un conto è la realtà e un altro conto la nostra percezione. Queste considerazioni religiose sono l’ennesima conferma che abbiamo bisogno di vere presenze che riconoscano l’importanza del nostro esistere. Dal pianto iniziale al rantolo conclusivo, le nostre vite continuano ad implorare: sono importante per te? Ti manco? Mi riconosci come unico e necessario? E se a queste invocazioni segue il silenzio? O meglio, con acutezza simbolica, il salmo ci dice che i sensi non rimangono a bocca asciutta ma sono saturi di voci e visioni feroci, di presenze che attestano il non valore delle nostre vite. Più che nel silenzio, l’abbandono lo sentiamo nel disconoscimento cinico e violento. Voci di beffa, senso di accerchiamento, soccombere del corpo violato, privazione di ogni bene. E mentre si è in preda al male di vivere, insieme al disorientamento, si è assaliti dai sensi di colpa: forse, è così perché non merito l’attenzione di Dio, io che sono solo un verme. La disperazione è un abisso in cui tutto precipita.

Lidia: unico appiglio: il ricordo di una madre e di una levatrice, quel Dio che, almeno all’inizio, si è dato da fare per metterlo al mondo, cullarlo, adagiandolo tra i seni materni. Partiamo da qui, da entrambe le esperienze, quella del corpo della madre e quella della polvere della terra. Quella che fa memoria dell’esperienza dei padri, il cui grido è stato udito dal Dio liberatore e quella delle voci sarcastiche, che domandano: dov’è questo Dio? Partiamo dalla serietà dell’abbandono, che nessuna retorica religiosa riesce a rintuzzare; e dalla percezione che, dopo aver patito una drammatica assenza, può succedere di tornare a scorgere il volto di Dio, che le relazioni possono essere ristabilite e la vita nuovamente nutrita. Che è possibile stare agli inferi senza disperare. Che ci si può rivolgere al Dio che abbandona. Nel salmo, il luogo angusto dell’angoscia si dilata in uno spazio che giunge alle estremità della terra e in un tempo che si proietta nel futuro. E noi che vediamo folle di disperati continuamente umiliati e potenti saldi sui loro troni, noi che desideriamo un futuro di cieli nuovi e terra nuova, urliamo, con il salmista, la nostra disperazione nell’attesa che l’urlo si trasformi in grida di parto e vagito di vita nuova e che il Dio levatrice ci rimetta al mondo.