Dignitas infinita… ma insufficiente

Il 2 aprile 2024 è stata pubblicata dal Dicastero per la Dottrina della fede la dichiarazione sulla dignità umana, dal trasparente incipit Dignitas infinita, dopo un iter molto complesso che si è esteso su un arco di tempo di cinque anni.

Difficile dire se siano molti o pochi. Forse in questo caso troppi, almeno per un documento che non vuole limitarsi a considerazioni di ordine generale ma anche entrare autorevolmente in questioni specifiche (su un tema di incredibile complessità e in continuo divenire), considerando i cambiamenti avvenuti in questi cinque anni. Cinque anni fa l’organismo che ha pubblicato il documento si chiamava ancora Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, ora felicemente semplificato in dicastero per la Dottrina della Fede.  Anche il prefetto del dicastero e il suo vice sono cambiati; ma questo rientra nella logica e nei ritmi normali delle istituzioni. Meno normale è che quasi all’improvviso ci appaia cambiato il mondo. Cinque anni fa vi era ancora, almeno nel nostro occidente, la convinzione diffusa di vivere in un mondo globalmente in pace sia pure con tanti problemi e tanti conflitti; oggi non vi è chi non ricordi, per la sua portata critico-profetica, l’espressione “terza guerra mondiale a pezzi”, coniata da papa Francesco nel 2014, in sé giustissima, tanto giusta che ormai non si può fare a meno di riconoscerla più che confermata, superata dagli avvenimenti

Onnipresente, sfuggente dignità

Il n.1 della Dichiarazione vaticana è di tono molto solenne e assoluto, il che però oggi facilmente si risolve in un fattore di debolezza e non solo in un limite sul piano comunicativo (soprattutto per un documento):

«1. Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi. Questo principio, che è pienamente riconoscibile anche dalla sola ragione, si pone a fondamento del primato della persona umana e della tutela dei suoi diritti. La Chiesa, alla luce della Rivelazione, ribadisce e conferma in modo assoluto questa dignità ontologica della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo Gesù. Da questa verità trae le ragioni del suo impegno a favore di coloro che sono più deboli e meno dotati di potere, insistendo sempre «sul primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza».

Qualcuno ha parlato, giustamente, di una dichiarazione piena di ‘no’ (all’aborto ovviamente, e alla Gpa, ovvero “gravidanza per altri”, che si vuole anzi rendere reato universale, all’eutanasia in modo indifferenziato, alla cosiddetta teoria del gender e al cambio di sesso… con Adesso gli asseriti cinque anni di lavoro possono sembrare molti, anche troppi dal momento che non portano nessun frutto nuovo (non solo sul piano dei contenuti, ma neanche del metodo di lavoro o dell’argomentazione o delle prospettive pastorali), troppi per limitarsi a ribadire ancora una volta qualcosa di cui sul piano teorico, indolore per definizione, nessuno dubita: ogni uomo o donna «ha la stessa, immensa, inalienabile dignità». L’ortodossia dottrinale elenca le violazioni di questa immensa inalienabile dignità, in modo piuttosto sbrigativo, mettendo tutto sullo stesso piano: aborto, eutanasia, maternità surrogata; ma nello stesso tempo anche la guerra, il dramma della povertà e dei migranti, la tratta degli esseri umani.

Questioni di tale complessità etica che un approccio troppo veloce non può assolutamente rendere giustizia al problema neppure in modo semplicemente descrittivo.

Unica premessa all’origine di tutte queste negazioni, è che gli esseri umani sono creati da Dio a sua immagine e somiglianza e da ciò deriva la loro “dignità assoluta e incondizionata” e forse per questo anche molto sfuggente. Non viene adeguatamente spiegato che cosa propriamente significhi questa dignità. Forse il documento del dicastero per la dottrina della fede ritiene che possa darsi per sottinteso, in uno scritto che non intende porsi come un trattato filosofico e nemmeno come un saggio (comunque anche nel diritto e nella filosofia, in cui i riferimenti alla dignità umana sono innumerevoli, raramente ci si preoccupa di definire il termine senza equivoci.

E gli equivoci abbondano. D’altra parte, secondo il Magistero recente come anche secondo quello meno recente, ciò che si riferisce alla dignità umana si può capire (e si deve accettare) anche solo esercitando la ragione. Così in un numero crescente di testi – anche nel documento vaticano di cui si tratta in questo caso -, la chiesa sembra volersi rivolgere a tutte le persone del mondo, non ai fedeli soltanto.

Atteggiamento che in passato a molti, e anche a chi scrive, è sembrato uno sforzo positivo di apertura senza preclusioni né barriere, ma adesso suscita perplessità sempre più accentuate. Più volte nella DI si afferma e/o si sottintende che quanto è detto sia vero e valido – il che implicitamente significa anche vincolante – per tutti gli esseri dotati di ragione e non per i credenti soltanto. In realtà certe affermazioni della Dignitas infinita possono risultare accettabili ai fedeli, in virtù della forza dell’abitudine (perché richiamano, anche testualmente, tanti documenti degli ultimi decenni, senza apporti nuovi) più che della validità intrinseca del ragionamento. Ma anche ai credenti certi punti appaiono difficili da condividere; e certe affermazioni a una riflessione più attenta risultano contraddittorie, certi divieti non coerenti.

A monte delle questioni normative, con cui a volte si può concordare e altre volte lasciano perplessi, la difficoltà di fondo è che la dignità umana, centro e fondamento di tutto il discorso, venga presentata come un quid originario e originante; ma nello stesso tempo appare, in realtà, derivata e secondaria. In altri termini È come se il fatto di “avere dignità”, anzi una dignità inalienabile, dipendesse solo dal fatto di essere creati da Dio e fatti a sua immagine; ma questa dignità, se il suo fondamento non è interno al soggetto stesso che la possiede, può essere inalienabile? In certi momenti, quella di cui si parla sembra una dignità per concessione, per privilegio: come se avessimo dignità in quanto amati da Dio che ci fa degni. Questo concetto può anche non fare difficoltà per un credente, abituato a pensare inseparabilmente se stesso in quanto persona, se stesso in quanto amato da Dio, creato a sua immagine per la somiglianza, e se stesso in quanto soggetto di diritti e di doveri. Si può avere l’impressione sconcertante di un umanesimo a metà, che non avrebbe molto significato e tanto meno autorevolezza, per una persona non credente o diversamente credente. Le violazioni della dignità umana sembrano viste come un’offesa al Creatore prima e più che a coloro che ne sono vittime.

La dignità «compete alla persona in quanto tale per il solo fatto di esistere e di essere voluta, creata e amata da Dio». È solo per concessione, in un certo senso, che gli esseri umani hanno dignità: non in sé, ma in quanto oggetti dell’amore divino. È la volontà di Dio a renderci degni: è come se gli esseri umani fossero strumenti della Creazione, più che portatori di un valore unico e autonomo.

Dignità e divieti

Adesso gli asseriti cinque anni di lavoro possono sembrare molti, anche troppi dal momento che non portano nessun frutto nuovo (non solo sul piano dei contenuti, ma neanche del metodo di lavoro o dell’argomentazione o delle prospettive pastorali), troppi per limitarsi a ribadire ancora una volta qualcosa di cui sul piano teorico, indolore per definizione, nessuno dubita: ogni uomo o donna «ha la stessa, immensa, inalienabile dignità».

L’ortodossia dottrinale elenca le violazioni di questa immensa inalienabile dignità, in modo piuttosto sbrigativo in nome suo l’ortodossia dottrinale ne elenca le violazioni, mettendo tutto sullo stesso piano, in modo molto sbrigativo: aborto, eutanasia, maternità surrogata; ma nello stesso tempo anche la guerra, i femminicidi, il dramma della povertà e dei migranti, la tratta degli esseri umani.

Troppe cose, troppo diverse tra loro e con livelli di gravità differenziatissimi, da cui si genera un’impressione di approccio inevitabilmente superficiale, anche nello sforzo di conservare una visuale a 360 gradi, di considerare tutto; ma ciò non è possibile, e in compenso rende facilmente imperdonabili le inevitabili omissioni. Inoltre l’impossibilità di fare analisi (perché analizzare richiederebbe uno spazio molto maggiore) impedisce di spingere la riflessione molto al di là del divieto.

 La dichiarazione nega la gravidanza per altri (meglio evitare l’orrenda e stigmatizzante espressione di “utero in affitto”) e la fecondazione artificiale eterologa, perché chi nasce il nascituro ha diritto, «in virtù della sua inalienabile dignità, di avere un’origine pienamente umana e non artificialmente indotta». Ma ormai da tempo è stato accettato che nulla è ‘pienamente naturale’ o ‘pienamente artificiale’. D’altra parte, nella prospettiva del documento anche l’origine degli esseri umani, in quanto creature di Dio, non è pienamente (nel senso di ‘esclusivamente’) umana. Lo stesso vale per la negazione della teoria del gender e il cambio di sesso. Si dice che la differenza sessuale è essenziale, originale e creata da Dio. Però, nei casi di anomalie genitali si può ricorrere alla chirurgia per ‘correggere’… Come stabilire rigide distinzioni tra ciò che è naturale e ciò che non lo è? Tra ciò che abbassa l’umano e ciò che lo migliora? Perché Tra l’anomalia dei genitali e le manifestazioni psicologiche della disforia di genere? La libertà della persona è evocata prima come libertà di fare il male e solo dopo come libertà di vivere all’altezza della propria dignità. E, peraltro, anche la libertà è un dono di Dio, e «sganciata dal suo Creatore, la nostra libertà non potrà che indebolirsi e oscurarsi». È per questo che, secondo il documento, non si devono creare nuovi diritti per soddisfare desideri e propensioni «soggettive».

Questa sfiducia di fondo nel desiderio e nella libertà esistenziale minaccia di aprire una frattura insanabile tra pensiero cristiano e pensiero moderno. I diritti si devono basare sulla natura umana, che però si riduce a essere creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio. Ma se l’essenza umana fosse di essere liberi, anche nella costruzione di sé? Sembra che ancora non si sia spazio nella dottrina cattolica per la visione positiva di un’umanità libera, liberante e padrona di sé.

Dignitas infinita, bisogna ammetterlo, è un documento che, nello sforzo di considerare tutto, non dice e forse non può dire nulla di nuovo.  Si resta colpiti dalla dissonanza anche rispetto a molte aperture papali basate non solo su battute occasionali, come il fin troppo famoso «chi sono io per giudicare?»), anche dalle caute aperture della analoga e recente dichiarazione Fiducia supplicans, sulla benedizione di coppie in situazioni irregolari (quasi sempre parlando di irregolarità si allude a coppie formate da persone dello stesso sesso), effettivamente portatrice di un germe di novità sebbene incompleta, comunque frenata dall’opposizione dei vescovi dei Paesi africani omofobi.

Il n.2 di Dignitas infinita afferma che «di tale dignità ontologica e del valore unico ed eminente di ogni donna e di ogni uomo che esistono in questo mondo si è resa autorevole eco la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (10 dicembre 1948) da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Nel fare memoria del 75° anniversario di questo Documento, la Chiesa vede l’occasione per proclamare nuovamente la propria convinzione che, creato da Dio e redento da Cristo, ogni essere umano deve essere riconosciuto e trattato con rispetto e con amore, proprio in ragione della sua inalienabile dignità. Ma subito si procede a sottolineare come l’anniversario offra alla Chiesa anche l’opportunità per “chiarire alcuni equivoci” sulla dignità umana e su alcune gravi e urgenti questioni concrete che vi si collegano.

Il punto 3 si apre con un’affermazione impegnativa e, almeno dal punto di vista fenomenologico, non del tutto rispondente a verità: «Fin dall’inizio della sua missione, sulla spinta del Vangelo, la Chiesa si è sforzata di affermare la libertà e di promuovere i diritti di tutti gli esseri umani», impegno che in verità ha cominciato a delinearsi intorno ai tempi del Concilio Vaticano II. «… San Paolo VI ebbe a dire che «nessuna antropologia eguaglia quella della Chiesa sulla persona umana, anche singolarmente considerata, circa la sua originalità, la sua dignità, la intangibilità e la ricchezza dei suoi diritti fondamentali, la sua sacralità, la sua educabilità, la sua aspirazione ad uno sviluppo completo, la sua immortalità».

Queste parole di Paolo VI sono del 1968, e chiaramente mostrano i frutti della riflessione conciliare. Ugualmente molto ottimistiche, almeno come valutazione storica, le parole di papa Benedetto XVI alla Pontificia Accademia della Vita (2010): la dignità della persona, egli affermava, è «un principio fondamentale che la fede in Gesù Cristo Risorto ha da sempre difeso, soprattutto quando viene disatteso nei confronti dei soggetti più semplici e indifesi».

Tra gli aspetti più deboli del documento, il fatto che siano classificati sbrigativamente come peccati problemi che avrebbero bisogno di essere più attentamente e serenamente studiati, senza arroccarsi su posizioni difensive e contrapposte; e che, in tanto profluvio di dignità teoricamente asserita, ancora si atteggino a custodi e difensori della dignità delle donne gli uomini di chiesa che continuano a negare loro la pienezza dell’umanità, dell’autorevolezza e della partecipazione.