Ernesto Buonaiuti
Una ricerca per domani
È ormai opinione condivisa che Ernesto Buonaiuti non sia stato un pensatore sistematico; il suo pensiero non può dirsi un sistema speculativo in senso stretto, sviluppato secondo traiettorie coerenti e riconoscibili ma si presenta piuttosto come un coacervo di intuizioni geniali, di analisi profonde, di visioni profetiche. Ogni tentativo di inquadrarne l’opera in una struttura organica corre quindi il rischio di risultare forzato e artificioso e per certi versi anche contrario allo spirito dell’autore, che non si prefisse mai alcun rigore logico.
Una biografia tormentata
Occorre inoltre tener conto che il suo lavoro ha risentito del tormentato rapporto con le istituzioni ecclesiastiche, una altalenante sequenza di sanzioni e riconciliazioni fino alla definitiva scomunica vitando del 1926: non c’è da stupirsi, pertanto, se qualcuno dei suoi libri, magari scritto proprio con lo scopo di ricucire i rapporti con la curia, non sia immune da ambiguità e contraddizioni. Ecco quindi che la sua tormentata biografia contribuisce a rendere, ove mai ve ne fosse stato bisogno, ancora più articolata la sua produzione con la conseguenza che per un adeguato esame del suo pensiero si rende necessario andare oltre le innegabili oscillazioni, revisioni e ripensamenti; individuare gli elementi principali senza lasciarsi fuorviare da quelli secondari o comunque occasionali; cogliere sotto un’apparente incongruenza la latente coerenza con più originarie premesse; in una parola, penetrare nello spirito dell’autore attraverso la lettera.
Pertanto, più che cercare sintesi a posteriori della sua opera può essere maggiormente efficace seguire il suo percorso di vita utilizzando, a mo’ di pietre miliari, le sue opere più significative; opere che, in un certo senso, sono tutte autobiografiche – non solo il Pellegrino di Roma (1945) – perché costituiscono il punto di approdo della sua riflessione a una determinata altezza cronologica.
La stagione modernista
Comunemente, Ernesto Buonaiuti è legato a filo doppio al modernismo, tanto che è diventato ormai quasi un luogo comune associare l’uno all’altro. Tale associazione è giusta se la intendiamo nel senso che Buonaiuti è stato il principale protagonista del modernismo italiano; non lo è, invece, se la intendiamo nel senso che la sua attività coincide con questo movimento culturale.
La prima fase della sua attività è contrassegnata certamente dall’adesione al modernismo. Ernesto Buonaiuti è un seminarista del Seminario Romano del Sant’Apollinare, educato come tutti i seminaristi della sua generazione a una rigida filosofia scolastica. La sua viva intelligenza e la sua innata curiosità lo spingono però a uscire da questo consolidato e rassicurante ambito intellettuale, a studiare le correnti filosofiche escluse dai programmi d’insegnamento e a cercare il confronto con la cultura contemporanea. Si vede crollare il mondo addosso allorché si rende conto che tutto ciò che gli era stato insegnato in seminario era ormai obsoleto e così, ordinato presbitero nel 1903 a ventidue anni, entra in contatto con gli ambienti clericali e con le élite intellettuali in cui cominciavano a diffondersi le idee di rinnovamento ecclesiale fino a diventare un punto di riferimento del movimento riformatore italiano, romano in particolare.
L’enciclica Pascendi dominici gregis del 1907 lo trova fermamente contrario e si lancia con coraggio, insieme ad altri amici presbiteri, ad organizzare la reazione: il Programma dei modernisti (1907) e le Lettere di un prete modernista (1908) sono i principali titoli, insieme alla rivista Nova et vetera (1908). In questi anni va sostenendo, col fervore e l’ingenuità tipici della sua giovane età, tesi molto estreme: la natura prevalentemente immanente del Regno, l’intellettualizzazione del messaggio cristiano operata da Paolo, il carattere meramente pragmatico dei dogmi, il valore simbolico dei sacramenti, la deriva razionalistica della filosofia scolastica, ecc.
Il sacerdozio della fede e quello della scienza
Ma l’impeto modernista dura poco perché Buonaiuti, pur mantenendo fede alle sue idee, inizia ben presto un cammino di riflessione, di maturazione, come testimoniano alcuni scritti di questi anni; è il caso, ad esempio, di alcuni scritti su Paolo – Le città di Paolo (1909) – in cui è evidente l’inizio di un’inversione di tendenza rispetto ai drastici giudizi di alcuni anni prima.
Nel 1915, poi, un importante evento sopraggiunge a spostare il baricentro dei suoi interessi: la cattedra universitaria di Storia del cristianesimo alla Facoltà di Lettere dell’Università di Roma. Buonaiuti sente e sentirà sempre il ruolo di docente come una parte essenziale della sua vocazione religiosa: doppiamente sacerdote, usa dire, della fede e della scienza. Le istituzioni ecclesiastiche non vedono di buon occhio questa sua nuova attività per vari motivi: in primo luogo perché costituiva un riconoscimento della sua statura intellettuale e, quindi, un’implicita smentita dei severi giudizi espressi su di lui; poi perché gli dava la possibilità di esercitare un’azione di proselitismo; non ultimo, perché lo rendeva indipendente dal punto di vista economico. Ma le pressioni esercitate con ogni mezzo su di lui per indurlo ad abbandonare l’insegnamento sono sempre respinte con fermezza; Buonaiuti entra così nel mirino della curia, che attende ormai solo il pretesto per ridurlo al silenzio.
L’occasione è data da un articolo del 1920, Le esperienze fondamentali di Paolo, in cui viene accusato di aver messo in dubbio la presenza reale di Cristo nell’eucaristia. La conseguente scomunica del 1921, presto rientrata, è per Buonaiuti un ulteriore stimolo ad approfondire il percorso di riflessione già avviato. Pubblica vari libri, alcuni usciti finanche con l’imprimatur della Santa Sede, nei quali è ormai evidente il suo cambio di prospettiva: in Apologia del cattolicismo (1923) il suo giudizio su Paolo è ormai completamente ribaltato e in Tommaso d’Aquino (1924) giunge finanche a rivalutare il tomismo, quantomeno nella sua componente gnoseologica. Tutto ciò però non gli evita la scomunica 1924 e quella definitiva vitando del 1926 perché ormai il conflitto teologico si è tramutato in un conflitto personale: il vero nodo problematico è il suo ostinato rifiuto di abbandonare l’insegnamento universitario.
La perdita della talare e della toga
Insegnamento che però è costretto a lasciare pochi anni dopo, nel 1931; la causa è il suo rifiuto di prestare il giuramento richiesto dal regime fascista ai professori universitari. Una circostanza dolorosissima che però si rivela provvidenziale sotto un altro aspetto, poiché avvia Buonaiuti al discorso ecumenico e alla ricerca di una fede vissuta fuori dalle strettoie confessionali. Ne La Chiesa romana (1933) – il principale scritto di questo periodo, frutto di una collaborazione con la chiesa metodista di Roma – importanti pagine sono dedicate al tema dell’ecumenismo.
La riconoscenza verso il mondo evangelico non gli impedisce però di cogliere le intime contraddizioni che lo attraversano e a sentire il desiderio di rivolgersi a una platea più ampia; a quanti, cioè, al di fuori di ogni confessione e di ogni chiesa, cercano una via verso il divino. L’ultimo Buonaiuti è un predicatore itinerante il cui orizzonte intellettuale va ben oltre l’ecumenismo. Nel luglio 1937 viene invitato a tenere una conferenza al World Congress of Faith di Oxford e pronuncia uno storico discorso dal titolo Il bisogno mondiale della religiosità. Dopo aver citato in apertura il suo maestro George Tyrrell, in un passaggio in cui affermava che la reviviscenza della religiosità è affidata agli esuli di tutte le chiese, sviluppa un discorso che rappresenta un ulteriore punto di svolta della sua riflessione, che ora attinge una dimensione sovraconfessionale per estendersi a tutto il fenomeno della religiosità: per salvarsi dall’universale naufragio delle religioni tradizionali «occorre riscoprire nelle fedi, la Fede».
La magnifica Storia del cristianesimo (1945), uno dei suoi ultimi scritti, ricapitola virtualmente il suo percorso di vita e la sua parabola intellettuale.
Un grande cercatore
In definitiva, Buonaiuti è stato un uomo in costante ricerca, un uomo che nonostante le vicende di una vita tormentata, costellata da sofferenze, amarezze, delusioni e ingiustizie, non ha mai abbandonato il suo sincero proposito di indagare l’intima essenza dell’esperienza religiosa. La coraggiosa ricerca di ipotesi di lavoro e di sintesi concettuali, non importa se ancora incomplete o provvisorie, è la cifra significativa della sua esistenza, il trait d’union che collega idealmente il giovane seminarista al predicatore itinerante. Da questa ricerca durata tutta una vita il suo pensiero ne è uscito arricchito di sempre nuove dimensioni, in un progressivo allargamento di orizzonti: dalla riflessione storica e teologica tutta interna al cattolicesimo, a una religiosità e una spiritualità universali fortemente connotate in senso antropologico e svincolate dalle religioni costituite. Forse è anche a ciò che va attribuito il suo rifiuto, di fronte all’ennesimo ricatto morale, di riconciliarsi con la Chiesa cattolica in punto di morte. Dopo la scomunica del 1921 pur di essere riammesso nella comunione ecclesiale aveva emesso una professione di fede nella quale dichiarava: «Approvo tutto ciò che la Chiesa approva e rifiuto tutto ciò che essa rifiuta»; prima di morire, invece, rifiuta di prestare analogo giuramento. Giunto alla soglia dell’incontro col Padre, nel suo animo non c’è più posto per una visione angusta della fede, le diatribe confessionali non rientrano più tra i suoi interessi; almeno non al punto da sconfessare tutto il suo passato.
Se il primo Buonaiuti è stato moderno per i suoi tempi, l’ultimo lo è per i nostri e l’insegnamento finale che ci lascia è questo: l’importanza di coltivare una fede che, per quanto radicata in una tradizione religiosa costituita, non trascuri di ricercare il senso religioso e sacrale della vita in tutte le sue manifestazioni. Nelle fedi, la Fede.