L'intervista
Carcere, la vera sicurezza non è dietro le sbarre
Incontro con Ornella Favero
Il carcere è un buco nero che inghiotte vite, speranze, affetti, dignità. Nonostante la Costituzione prescriva che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato, a un percorso di recupero e di restituzione alla società e alla cittadinanza, per molti reclusi la detenzione si trasforma in un’afflizione senza limiti, sospesa nello spazio e nel tempo. E, quando ha termine, lascia in eredità a chi ha espiato la sua colpa soltanto disorientamento e sconcerto. Come l’analfabeta in biblioteca, come il paraplegico su una pista di atletica, l’ex detenuto scaraventato nel mondo libero non ha strumenti per agire, per interpretare la realtà, per (ri)trovare una propria collocazione all’interno del vivere civile.
Nelle 189 carceri italiane il 2023 si è chiuso con un sovraffollamento record (oltre 60 mila detenuti, 9 mila oltre la capienza degli istituti di pena). Ma il problema più grosso è l’isolamento, la frattura esistente fra mondo dei “liberi” e mondo dei carcerati: due realtà che vivono indipendentemente l’una dall’altra, incomunicanti. Salvo quando dalle cronache emerge per qualche giorno la notizia dell’ennesimo suicidio, sintomo di un disagio profondo che riguarda, prima ancora che la “logistica” e l’inadeguatezza degli spazi, il senso stesso e la percezione di cosa sia e a cosa serva il carcere.
All’interno del carcere Due Palazzi di Padova, la rivista Ristretti Orizzonti (distribuita sia all’interno sia all’esterno dell’istituto di pena) cerca di ridurre questa frattura, di costruire ponti fra la realtà carceraria e quella della vita “reale”. La redazione è composta da una trentina di detenuti in qualità di giornalisti, che vengono affiancati da un gruppo che partecipa alle discussioni ma non a tutte le attività. Li coordina Ornella Favero, che 26 anni fa, nel 1998, ha avuto l’idea di dare voce ai detenuti.
Tutto è nato dopo una lezione sul giornalismo che, da volontaria, avevo tenuto presso la scuola del carcere. Mi è stato chiesto di approfondire, di trasformare quell’incontro in un progetto di comunicazione che provasse a raccontare la detenzione in modo diverso da come ne parlano i giornali. Dall’interno, ma con un approccio comprensibile anche a chi non vive il carcere. E così, io che sono laureata in Lingua e letteratura russa e a quel tempo facevo l’interprete e secondariamente la giornalista, da allora mi sono dedicata a tempo pieno a questo progetto.
Quello della Casa di Reclusione di Padova – dove i detenuti possono anche svolgere una professione, ad esempio nella cooperativa Giotto, pasticceria che sforna pluripremiati panettoni – non è l’unico esempio virtuoso di superamento della pura e semplice logica detentiva.
Nel carcere di Bollate dal 2015 opera il ristorante “Benvenuti in galera”, aperto al pubblico. Anche la Casa Circondariale di Bologna pubblica un giornale, intitolato “Ne vale la pena”. A San Gimignano (Si) è stato organizzato un corso di scrittura creativa per i detenuti. In linea generale, posso dire che questi non dovrebbero essere “esempi virtuosi”, ma esperienze previste nello scenario carcerario. La nostra Costituzione, all’articolo 27, dice che le pene devono tenere alla rieducazione. E l’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario consente l’ingresso in carcere a tutti coloro che “avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”. Dunque la società civile, in particolare il cosiddetto terzo settore, dovrebbe stabilmente concorrere all’ideazione e alla gestione di percorsi riabilitativi e rieducativi, finalizzati all’acquisizione di professionalità e livelli di istruzione che consentano ai detenuti, una volta pagato il loro debito con la giustizia, di ricostruirsi una vita. In altri termini, percorsi come il nostro dovrebbero appartenere alla normale attività delle case di pena, ma così non è, perché sono invece legati a iniziative singole, spesso isolate. Basti pensare che in tutta Italia ci sono meno di mille educatori, i più importanti artefici dei percorsi di reinserimento. In questo senso, le responsabilità e le mancanze da parte della politica sono enormi.
La politica sembra puntare sempre sulla sicurezza e sul contenimento, più che sulla rieducazione. La senatrice e vice presidente della Commissione giustizia Ilaria Cucchi dice che il sistema penitenziario è al collasso e che il tema delle carceri è impopolare perché nel breve periodo non fa prendere voti ai politici, impegnati in una campagna elettorale permanente.
La convinzione diffusa è che il carcere ci renda più sicuri e che rinchiudere gli individui problematici ci liberi dal pericolo. Una visione ristretta, opportunistica, che vede solo il qui e ora. Invece servirebbe uno sguardo lungo, la lungimiranza di investire sul futuro. Una volta scontata la loro pena, che genere di persone rientrerà nella società? Saranno probabilmente individui impreparati alla vita reale, dalla quale sono stati scissi per anni. Senza una professione, senza un’istruzione adeguata gli ex carcerati hanno un’alta probabilità di ricadere nel reato. E allora dove va a finire la famosa “sicurezza” che dovrebbe mettere al riparo la società da chi delinque? La più grande sconfitta dello Stato è che le persone in carcere escano soltanto a fine pena, e non prima, per effetto di misure alternative e di un percorso guidato: tutte le ricerche fatte fino a oggi dimostrano che il detenuto restituito senza preparazione alla vita libera, alle sue regole e alle sue caratteristiche è come un subacqueo che riemerge alla superficie senza un’adeguata decompressione. Il rischio è alto.
Quello della riforma della giustizia è un argomento vasto e complesso. Secondo lei, cosa sarebbe più urgente fare?
Naturalmente, a monte del carcere ci sono molte questioni giudiziarie che andrebbero risolte. Direi che la prima cui mettere mano sarebbe il fatto che molte persone non dovrebbero essere rinchiuse in carcere. Mi riferisco in particolare ai tossicodipendenti o agli individui con diagnosi di tipo psichiatrico, che dovrebbero essere seguiti all’interno di strutture di cura e di assistenza come le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che accolgono gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi). Il carcere dovrebbe essere fatto solo per le persone pericolose per l’esistenza sociale, nella fase in cui serve interrompere la commissione di reati. Ma poi bisognerebbe cominciare a lavorare per curare la loro dipendenza e invece si finisce con il congelarla e, in molti casi, renderla più pesante o addirittura perenne. Il carattere più punitivo che rieducativo dei nostri istituti di pena è sicuramente uno degli aspetti più gravosi. Sovraffollamento, fatiscenza delle strutture e carenza di spazi adeguati contribuiscono ad aumentare i disagi e a rendere la prigione una scuola del crimine più che un luogo di recupero.
Disagi di cui sentiamo parlare ogni giorno. Aumentano i decessi nelle carceri italiane: suicidi, assistenza sanitaria deficitaria o assente, problemi di overdose… Nel 2023 nei nostri penitenziari sono morte 157 persone. Ma soprattutto c’è il dramma dei suicidi: nel 2023, 69 persone si sono tolte la vita in carcere. E nel 2024, appena iniziato, potrebbero essere ancora di più: a gennaio i suicidi sono stati già 8.
In termini percentuali, i suicidi e i tentativi di suicidio in carcere sono molto più numerosi che nella vita “libera”. La prevenzione in questo campo è un tema delicato, ma nessuno pensa che semplicemente rendere più facili e continuativi i contatti telefonici fra i detenuti e le loro famiglie sarebbe una misura fondamentale per limitare gravi depressioni, senso di solitudine e di paura. Al Due Palazzi siamo riusciti a mantenere la telefonata quotidiana anche dopo la fine della pandemia che l’aveva resa possibile. Ma generalmente, negli altri istituti di pena, è consentita una sola telefonata alla settimana, a meno che il detenuto non abbia figli minori. Poter sentire una voce amica, poter scambiare qualche parola d’affetto è secondo me una delle forme di prevenzione più efficaci, essendo l’unico collegamento fra il recluso e la vita reale. Insisto: una carcerazione più umana è la prima forma di sicurezza cui dobbiamo affidarci. Anche nei casi dei detenuti ad alta sicurezza: chi l’ha detto che anche un delinquente incallito o un mafioso non possano cambiare vita, se hanno occasione di confrontarsi con persone al di fuori della loro cerchia? Certo, se li lasciamo sempre e solo in contatto con loro omologhi, allora il risultato non potrà che essere deludente. La possibilità di rifarsi una vita non andrebbe negata a nessuno. E in ogni caso, non è giusto far pesare le colpe di una persona sui suoi familiari e in particolare sui figli, quando li si privi di un contatto umano con il loro genitore.
Spesso la cosiddetta gogna mediatica pregiudica il diritto all’oblio, che prescriverebbe di non diffondere, senza particolari motivi, i precedenti giudiziari di una persona. Come viene vissuto in carcere questo disagio?
Come fonte di grande ansia. Dobbiamo sempre pensare che dietro ogni reato, o meglio dietro la persona che l’ha commesso, ci sono altre persone: familiari, figli, genitori, mogli e mariti. Il diritto di cronaca purtroppo consente che certe storie vengano riprese e citate nei particolari ogni volta che si verifica un reato analogo, andando ben oltre il diritto di informazione. E così, un uso meramente strumentale dei fatti si trasforma in un calvario non solo per le persone coinvolte, ma anche per le loro famiglie.
Quanto contano il lavoro e l’istruzione per il recupero e il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti?
Sono fondamentali, come dicevo prima. Ma soprattutto conta che il detenuto arrivi al momento della scarcerazione non solo con una qualifica professionale e possibilmente un titolo di studio in tasca, ma anche dopo aver seguito un percorso che lo renda consapevole della portata del reato commesso e delle sue conseguenze, soprattutto nei confronti delle vittime. Faccio solo un esempio: molte volte mi è capitato di parlare con autori di rapine a mano armata, che mi hanno assicurato che mai avrebbero usato le armi, utilizzate soltanto come “deterrente”. Ma quando hanno potuto ascoltare, nel corso dei numerosi incontri fra detenuti e vittime di reato organizzati da Ristretti Orizzonti, il racconto della paura provata dalle persone minacciate da una pistola o tenute in ostaggio durante un tentativo di rapina, hanno capito che il disagio che hanno creato non è durato un’ora o il tempo “tecnico” del fatto, ma spesso si è protratto nel tempo in forma di vero e proprio trauma. Sentirsi raccontare da una vittima l’esperienza drammatica di trovarsi un ladro in casa nel cuore della notte, che poi condiziona la vita per anni, aiuta i detenuti a comprendere bene cosa significa assumersi la propria responsabilità circa un comportamento violento. Si tratta di un momento fondamentale della cosiddetta giustizia riparativa, un approccio in cui crediamo molto e che consiste nel considerare il reato principalmente in termini di danno alle persone, di cui l’autore del reato deve essere consapevole. Intorno a questo tema abbiamo organizzato incontri davvero emozionanti, ricchi di contenuto umano, ai quali mi sento molto legata.
Molte sono le iniziative che affiancano la produzione della rivista e della newsletter (diffusa a migliaia di abbonati in tutta Italia), come ad esempio gli incontri con le scuole.
Ci piace lavorare anche sulla prevenzione. Siamo convinti che, attraverso le loro testimonianze, le persone che hanno commesso reati possano far capire ai ragazzi i meccanismi che le hanno portate a compiere scelte sbagliate. A volte si pensa che chi delinque appartenga a una categoria particolare di persona, già predisposta al reato o comunque consapevole delle possibili conseguenze, salvo poi scoprire che in molti casi finiscono in carcere persone che mai avrebbero immaginato per loro un destino simile. A volte, anche un piccolo scivolamento verso un comportamento a rischio, come ad esempio una reazione violenta a una lite o la guida in stato di ebbrezza, comporta conseguenze gravi, inimmaginabili ai più. In questo senso, un confronto aperto aiuta sia chi ascolta sia chi racconta, in un percorso di condivisione di grande valore educativo. È importante che diminuisca la distanza fra il “fuori” e il “dentro” il carcere, ossia venga sfatata l’illusione che esista una differenza profonda e insuperabile fra i “totalmente buoni” e gli “assolutamente cattivi”, come abbiamo riassunto una volta nel titolo di un convegno. Chiunque, in modo totalmente inatteso, può ritrovarsi con un amico o un parente in carcere, magari come conseguenza di un errore o di un momento di debolezza. Ristretti Orizzonti cerca appunto di parlare del tema carcerario in modo libero e aperto, nella convinzione che trattare questi temi pubblicamente faccia bene non solo a chi sta scontando una pena detentiva, ma anche alla società in generale. Tenga poi presente che parlare dei propri disagi e delle proprie difficoltà a volte può evitare la commissione di un reato: gran parte dei nostri detenuti è formata da persone che non hanno saputo chiedere aiuto al momento giusto.