Impresa e consumo
La responsabilità sociale del consumatore
La realtà odierna ci offre un panorama non proprio esaltante, con frequenti crisi finanziarie e inaccettabile incremento delle disuguaglianze. Tanto per fare un esempio, negli USA già nel 2015, per la prima volta dopo cento anni, la classe media non è più maggioranza, che è invece formata dalla classe dei più ricchi sommata a quella dei più poveri.
Se ricordiamo che i sociologi concordano nell’individuare nella classe media un importante supporto della democrazia, non possiamo poi stupirci se registriamo una preoccupante astensione dal voto e una pericolosa avanzata di populismi e nazionalismi.
Possiamo tuttavia evitare di indulgere nel pessimismo e lo facciamo seguendo gli indizi che ci fornisce lo svedese Johan Norberg, storico delle idee, che ha pubblicato nel 2016 “Progresso. Dieci motivi per guardare al futuro con fiducia” (IBL Libri). Stralciamo qualche dato. L’aspettativa di vita nel mondo è aumentata di oltre 20 anni dal 1950, e prima del 1800 non superava i 40 anni; nel 1900 non esisteva il suffragio universale, mentre nel 2015 il 63% dei Paesi è retto da democrazia elettorale; nel 1820 l’alfabetizzazione era riservata solo al 12% della popolazione, oggi solo il 14% non è in grado di leggere.
Tutto bene? Non proprio, se è vero che i problemi sopra riportati hanno indotto un paio di anni fa un settimanale autorevole come il londinese The Economist a parlare della necessità di una “rivoluzione del capitalismo”, che si rende necessaria per arginare la svolta impressa negli ultimi decenni al mondo globalizzato. Vediamo perché.
Quale impresa
In economia, in tema di valore, si distingue chi lo crea da chi se ne appropria. Negli ultimi tempi è accaduto che il limite si sia spostato in favore dell’impresa, nelle sue articolazioni tra azionisti e amministratori. Come riporta lo stesso giornale, si è delineato “un sistema squilibrato a favore dei proprietari del capitale a spese dei lavoratori”. In pratica si è così tornati alla teoria economica classica, che assegnava all’impresa il compito esclusivo di massimizzare gli utili.
Nell’odierna accezione di impresa trovano invece spazio diversi soggetti che hanno una “posta in gioco” (stake). Sono i portatori di interesse (stakeholder) e si individuano, oltre che negli azionisti, anche in clienti, dipendenti, fornitori e, più in generale, nella comunità in cui l’impresa opera.
Da questo nuovo modello di gestione scaturisce che l’impresa deve perseguire il profitto, senza però ignorare gli equilibri ambientali e sociali su cui si regge l’assetto sociale nel suo complesso. Il profitto così generato serve a ridare anima all’economia, diventa arricchimento collettivo, perseguendo quei valori generali in cui l’intera società si riconosce. È il mondo nuovo realizzato nel secolo scorso dall’imprenditore visionario Adriano Olivetti, capitalista dal volto umano, che ha dato vita all’utopia, concependo l’industria come progetto morale e coniugando progresso materiale, tecnologia d’avanguardia, primato della cultura ed etica della responsabilità. Ci domandiamo – per inciso – quanto spazio trovi questa evoluzione dell’impresa nei manuali oggi utilizzati nelle nostre scuole superiori e all’università.
L’involuzione del nostro tempo ci porta in altre direzioni, perché l’economia si presenta compatta e acquista larga autonomia, occupando gli spazi lasciati da una politica inconsistente, rinunciataria e frammentata. Si finisce così per marginalizzare il cittadino che, da attore delle scelte di interesse comune, viene degradato al ruolo modesto di consumatore, quale semplice destinatario di decisioni prese da altri. Pungente – a questo proposito – è la sintesi dell’ex ministro, il prof. Giulio Tremonti: “Abbiano creato un tipo umano che non solo consuma per esistere, ma esiste per consumare” (La paura e la speranza, Mondadori, 2008).
Quale consumatore
C’è qualche rimedio? Probabilmente sì e lo ha proposto qualche anno fa il prof. Leonardo Becchetti, ordinario di Economia all’Università Tor Vergata di Roma. Nel suo libro (Il mercato siamo noi, Bruno Mondadori, 2012) suggerisce di ricorrere al “voto col portafoglio”, strumento con cui il cittadino, con una scelta oculata, può premiare quelle imprese che dimostrino una “efficienza a tre dimensioni”, associando alla capacità di creare valore economico, il rispetto del lavoro e dell’ambiente.
Il tema è stato ripreso da papa Francesco con la Laudato si’, un’enciclica straordinaria che offre spunti preziosi su molti aspetti del nostro vivere contemporaneo.
Leggiamo al punto 206 che “quando le abitudini sociali intaccano i profitti delle imprese, queste si vedono spinte a produrre in un altro modo. Questo ci ricorda la responsabilità sociale dei consumatori. Acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico”.
Il piccolo uomo, dunque, il consumatore vezzeggiato formalmente, ma sostanzialmente dileggiato dai protagonisti del mercato (grandi imprese, imbonitori della televisione e dei social, pubblicitari e persuasori di ogni risma) può far sentire la sua voce. Il voto col portafoglio consente all’acquirente di intervenire nel mercato promuovendo le imprese che assolvono in modo corretto il ruolo di promozione economica e sociale che viene ad esse affidato. È un ruolo complesso, perché, oltre alle tre dimensioni citate, occorre rispondere alle attese di tutti i portatori di interesse che gravitano nell’orbita dell’impresa.
Per dimostrare l’affidabilità, è necessario che le imprese assumano un comportamento di responsabilità, dando conto (accountability), con il bilancio d’esercizio e con il bilancio sociale, di quello che fanno, informando tutti gli stakeholder. In questo modo si può realizzare il “miracolo” di generare ricchezza non solo economica, ma anche relazionale, in un contesto finalizzato al perseguimento del bene comune.
Come può il semplice acquirente esercitare il proprio voto col portafoglio? Occorre anzitutto che sia cosciente di poter influire sui comportamenti aziendali. Vari esperimenti condotti da studiosi confermano questa possibilità. Per esercitarla occorre tuttavia essere informati. Non sempre e non tutti possono esserlo, ma il semplice gesto di porre domande può sortire l’effetto di stimolare le imprese a “presentarsi” con sistemi di valutazione, che consentano all’acquirente di effettuare una scelta ponderata.
Sappiamo tuttavia che una rondine non fa primavera. Per questa ragione l’azione deve essere coordinata con altri consumatori. Non è un compito facile, ma si comprende perfettamente come sia bene spendersi in questa prospettiva, se si considera che l’acquisto responsabile qualifica il consumatore, sottraendolo dall’anonimato in cui viene relegato dai persuasori pubblicitari.
Si potrebbe ora obiettare, come i vari passaggi sopra individuati si traducano in aumento dei costi che si riverberano poi sul prezzo. È vero, ma proviamo ad ampliare l’orizzonte.
Da qualche decennio è attiva la formula del commercio equo e solidale, con la quale si segue la filiera dei prodotti che acquistiamo, privilegiando quelli provenienti da luoghi dove non si mortifichi il lavoro, non si depredi la natura, si rispetti l’ambiente. Promuovendo con le nostre scelte questo tipo di commercio, si amplia il panorama di quelle aziende che operano correttamente, con effetti benefici sui prezzi e si restringe in qualche modo il mercato di quelle che operano per il fine esclusivo del profitto.
Vaste programme, verrebbe da dire parafrasando il generale De Gaulle, ma se si pone attenzione all’alta valenza etica di questo approccio, si scoprirà che comunque il prezzo più alto non è ostacolo insuperabile alla nostra scelta.
Ed è ancora papa Bergoglio a ricordarci che “l’esercizio di questi comportamenti ci restituisce il senso della nostra dignità, ci conduce a una maggiore profondità esistenziale, ci permette di sperimentare che vale la pena passare per questo mondo” (212). Può essere un passaggio accidentato, ma Fichte, filosofo tedesco (1762-1814), ci insegna a non aggirare l’ostacolo, ma ad affrontarlo per superarlo, perché in questo modo esso diventa una tappa del nostro percorso verso la libertà. In ogni caso, se permanessero dubbi o perplessità, poniamoci una domanda semplice: preferiamo che la gente sia al servizio dell’economia o che questa sia al servizio della gente?