80 anni con Bonhoeffer

Lettere di Bonhoeffer

Il 9 aprile 1945, ad appena un mese da quando verrà alzata sul Reichstag la bandiera dell’armata rossa, nel campo di concentramento di Flossemburg, veniva strangolato a morte con feroce lentezza, su di una corda che si alzava e scendeva a partire da un gancio di ferro conficcato in una parete, Dietrich Bonhoeffer. A 39 anni, pagava il prezzo altissimo dell’esserci per gli altri e per la sua coscienza, di non aver taciuto di fronte al male, di aver scelto la strada della resistenza, di aver consapevolmente tentato di fermare il “pazzo che lancia la sua auto sul marciapiede” non limitandosi “a sotterrare i morti e consolare le famiglie”, partecipando alla congiura per assassinare il fuhrer (la cosidetta operazione Valkiria) che si concluse con un fallimento il 20 luglio del ‘44. Si assunse così la responsabilità di tentare di fermare il male anche con quella che avvertì come una inevitabile e inescusabile colpa: il ricorso alla violenza. Decise di non restare alla finestra, di stare nella contraddizione.

Avrebbe potuto sottrarsi a questa estrema fedeltà al mondo. Nel 1939 fu invitato negli Stati Uniti ad insegnare ma a ridosso dell’inizio della guerra con l’attacco hitleriano alla Polonia decise di riprendere la nave, tornare in patria, assumere la propria responsabilità di uomo, di cristiano, di teologo e di tedesco. Lui stesso confesserà che l’aver preso la rischiosa via del ritorno lo liberò dal peso di una scissione tra il dire e l’agire, tra il pensare e l’essere.

Già 15 anni prima, nel maggio del 1934 Bonhoeffer, aderendo alla Chiesa confessante, in contrasto con la Chiesa evangelica tedesca fedele al regime, aveva condiviso il primo punto della Confessione di Barmen. “Gesù Cristo, così come ci viene testimoniato nella Sacra Scrittura, è la Parola di Dio che noi dobbiamo ascoltare, cui dobbiamo affidarci in vita e in morte e a cui dobbiamo a obbedire”. Insomma “solus Christus”, abbiamo un unico Signore a cui possiamo inginocchiarci e dar gloria: un grande messaggio per le Chiese di ogni tempo, per quelle di oggi che in tanti Paesi servono Mammona, blindano identità, irrigidiscono le menti, induriscono i cuori.

Dietrich Bonhoeffer è resistenza e resa come è felicemente titolata la raccolta di lettere e testi scritti tra il ’43 e il ’45 dal carcere berlinese di Tegel e inviate a parenti ed amici, soprattutto a Eberhard Bethge, suo allievo nel seminario “irregolare”di Finkenwalde (’35-’39), una sorta di monastero protestante, caratterizzato da una vita comune, imperniata sulla forza della preghiera che prepara alla sequela, all’impegno evangelico, all’ortoprassi, a vivere la fede nel mondo adulto, nelle società secolarizzate ma non per questo liberate dall’ingiustizia, dall’aggressività, dalla volontà di dominio e da una massificazione deprimente e pericolosa, a cui talvolta Bonhoeffer contrappone l’esigenza di una nuova nobiltà, suggestiva ma non priva di ambiguità.

Resistenza e resa dunque. Resistenza ferma e perseverante al male come scelta anche di fede, nella convinzione che “non è l’atto religioso a fare il cristiano ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo” e resa o meglio affidamento a Dio e alla sua volontà. Per cantare con autenticità il gregoriano, scriverà, bisogna alzare la voce in difesa degli ebrei. Fedeltà alla terra e fedeltà a Dio non possono viaggiare su binari separati e quando questa doppia fedeltà non produce ai nostri occhi risultati apprezzabili bisogna pur riconoscere che la sequela cristiana è quella ad un Kirios finito su una croce; d’altra parte questo è “il singolo segno visibile di Dio nel mondo”. La grazia non è mai a buon mercato. Ma la grazia dobbiamo sempre sperarla ed attenderla, non cercandola fuori dal secolo ma nell’ora della nostra responsabilità, sapendo che il “penultimo” è davvero “penultimo” ma che è il luogo del nostro impegno e della nostra decisione.

Il pensiero e la vita di Bonhoeffer per quel che sappiamo di lui non sono affatto percorsi, come potrebbe sembrare, da una vena pessimistica. Troviamo in “Resistenza e resa” alcuni pensieri sparsi, uno dei quali dice così: la serietà più conseguente non è mai senza una dose di humor, come dire che la fede stessa evita di assolutizzare le nostre pretese, che i nostri successi come i nostri fallimenti non sono l’ultima parola e che al di là delle nostre strade, da percorre con piena responsabilità, resta strada di Dio.  Vale la pena di citare i passaggi di un suo scritto per comprendere la sua posizione: “L’essenza dell’ottimismo non è guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che ogni cosa vada per il verso sbagliato, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari (…) Esiste certamente anche un ottimismo stupido che va bandito. Ma nessuno deve disprezzare l’ottimismo come volontà di futuro. (…) Può darsi che domani spunti l’alba del giudizio universale: allora, non prima, noi deporremo volentieri l’opera per un mondo migliore”. Domando scusa della forzatura ma a me questo ricorda molto da vicino il gramsciano pessimismo della ragione ed ottimismo della volontà. Due uomini così distanti ma sostenuti da una fede diversa ed esigente che ad ogni tornante, anche il più tragico sul piano collettivo e personale, induce a riprendere il cammino.

Come cristiani Dietrich Bonhoeffer è colui che ci ha insegnato più e prima di ogni altro a mettere Dio, il Dio di Gesù Cristo, al centro della nostra esistenza, dentro la nostra vita buona, non ai margini, non negli estremi della nostra fragilità, quando fallite tutte le risposte, cerchiamo la soluzione in quello che lui ha chiamato il “dio tappabuchi”. Colui che mette una pezza su ciò che non sappiamo spiegare o sopportare. L’uomo religioso per come lo intende il martire tedesco è colui che non attende con fede il Signore che viene ma colui che costruisce innumerevoli scale per raggiungerlo.  Però “chi fugge la terra per trovare Dio trova solo se stesso. Chi fugge Dio per trovare la terra non trova la terra come terra di Dio”. Certo la terra di Dio forse era quella che sognava il Bonhoeffer giovanissimo col suo pacifismo radicale che invitava le Chiese ad annunciare profeticamente la pace, ad osare la pace, a rischiare la pace, a non costruirla illusoriamente sulla sicurezza di “un riarmo pacifico generale” fondato su una “diffidenza” generatrice di aggressività e di guerra. Come ritornano sempre uguali e drammaticamente irrisolte eterne questioni!

Dietrich Bonhoeffer ci ha lasciato una grande eredità, non un pensiero teologico compiuto e sistematico certo, non una Summa, ma un insieme di piste su cui si è continuato a riflettere e a lavorare in questi ottant’anni. Vuol dire che la sua è stata una semina straordinariamente feconda, un’incompiutezza stimolante, una pro-vocazione creatrice. Un po’ come avvenne ad un genio morto alla sua stessa età: Blaise Pascal. Che fortuna! Vien da dire, che ci abbia lasciato i Pensieri, piuttosto che la gigantesca Apologia del cristianesimo che aveva immaginato. In questo modo ci è stato consegnato un compito, delineato un sentiero per il quale tanti hanno camminato in un orizzonte aperto nel quale pensare e vivere la fede dentro le sfide della contemporaneità.

Con questo numero, soprattutto attraverso il magistrale intervento di Ylenia Goss, vogliamo iniziare un percorso che rimetta davanti ai nostri occhi le intuizioni bonhoefferiane sotto molteplici aspetti e che, a partire da esse, ci consenta di capire meglio qual è il nostro compito oggi, con il pensiero e con l’azione, per dire e fare qualcosa di sensato in una situazione inquieta e perigliosa come non mai dai tempi tragici che sconvolsero il mondo e portarono l’Europa al suicidio. Quelli nei quali Dietrich Bonhoeffer visse e morì camminando eretto.